Con gli occhi di un immigrato

lunedì, gennaio 11, 2010 - Pubblicato da Dan Angelo alle 04:50



Incredulo sono venuto qui per vivere e magari trovare qualcosa da mangiare, il diavolo della fame bussa forte sulla porta infernale del mio stomaco. E così presi le mie due cose e m'imbarcai con pochi documenti, speranze tante. E come aggrappato ad un burrone, arrivai al "belpaese". L'Italia.

"Navigammo su fragili vascelli
per affrontar del mondo la burrasca
ed avevamo gli occhi troppo belli:
che la pietà non vi rimanga in tasca."

Quanta vita doveva arrivare, quanta vita mi aspettavo. L'Italia era per me un paese di civiltà moderna, di lunghe strade, di scienza, di artisti e di infiniti orizzonti. Un mondo di possibilità tutte da cogliere ed ero pronto ad affrontare tutto per guadagnarmi quello che per me tanto desideravo.

Mi sbagliavo.

Quanta morte doveva arrivare, quanta morte mi aspettava. Arrivato, la mia immaginazione venne uccisa all'istante, quello che mi parve davanti era un luogo dimenticato da Dio. La prima notte dovetti dormire al gelo addosso a una serranda di un negozio, e la mattina seguente non ci volle una sveglia per farmi alzare, ma il proprietario con il viso rosso, che anche se urlava parole incomprensibili per me, gli bastò darmi due calci per farmi scattare come un cane bastonato. E così, dannato quel giorno, arrivai in quel luogo infernale. Appena sceso lì, notai subito che c'erano tanti miei fratelli della stessa pelle e fui sul momento felice, perchè ci stavano dando un lavoro, misero, ma diamine era un lavoro! Ma anche allora, non capii che quel giorno mi misero una palla al piede.

"Uomini cui pietà non convien sempre
male accettando il destino comune,
andate, nelle sere di novembre,
a spiar delle stelle al fioco lume,
la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un domino che non avrà mai fine."

Mi dissero che mi stavano dando anche un alloggio, che bellezza! Addio fredde notti al gelo, addio bastonate da padroni imbufaliti, addio vagabondaggio! Ma alla vista della mia nuova dimora, impallidii. Una fabbrica a cielo aperto, fuochi accesi un pò ovunque e miriadi di animali vestite da persone che si facevano spazio tra gli angoli di quell'inferno in terra. Ecco la casa che mi avrebbe ospitato, eccomi il nuovo animale ero io.

Stavano morendo, i miei sogni sanguinavano di ferita mortale. E con loro, io.

Tuttavia, lavorai. Ore e ore per i campi, davo tutto me stesso: anche li credevo, credevo che il mio sforzo sarebbe stato ripagato e i  miei compagni mi davano dello stolto, senza che io capissi. Sudore e fatica. Sacrificio e sangue. E la sera, i miei vicini di cuccia mi dissero di non uscire la notte, perchè c'erano bande di ragazzini bianchi armate di spranghe, pronte a colpire il povero immigrato di colore che si sarebbe avventurato dopo le sette di sera.

Niente mi logorò come il vivere lì. E vivere è una parola troppo grossa per chi cerca di sopravvivere ogni giorno.
Ridurmi in questo stato era la loro proclamata libertà? Ma non ci sono diritti, leggi e uguaglianza? E' questa la libertà di un uomo che ha lo stesso sangue di un italiano?
Volata via, insieme al vento volata via.

"Giudici eletti, uomini di legge
noi che danziam nei vostri sogni ancora
siamo l'umano desolato gregge
di chi morì con il nodo alla gola. "

E così i miei sogni morirono. E morii anche io, strisciando morii. Non è vita questa, non lo è.
Sono morto da vivo.

"Uomini, poiché all'ultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano
finché non sia maturo per la falce."

Ma io ero venuto a cercare la vita. Il nostro silenzio, la nostra passiva obbiedienza al nostro giornaliero omicidio doveva finire. La rabbia cresceva tra di noi, quanta sofferenza dovevamo ancora patire. Basta.  Basta allo sfruttamento, basta all'odio, basta al razzismo. BASTA! Dentro di me saliva un fuoco nuovo, un fuoco di quella voglia di vivere che non poteva sparire così, il fuoco dei miei sogni uccisi, il fuoco della mia libertà! Sentimmo, allora, la necessità di fare qualcosa, di farci sentire, di farci sentire come persone e uomini uguali a tutti gli altri.

Cosa facciamo?
Alziamo il Pugno.

Ed eccoci, vermi striscianti che hanno deciso di rimettersi in piedi. Eravamo bestie, ora ci stavamo rialzando da uomini. Allora urliamo per le strade, urlate fratelli! Urlate all'Italia e al mondo cosa significa sopportare tutto questo. Urliamo insieme cosa significano rispetto, diritti e libertà! Così marciammo sulle strade, una nuova forza in noi ci spingeva e sapevamo che agivamo per il Bene. E volevamo risposte, certezze e un futuro.  Ma d'un tratto sentimmo sirene, manette, manganelli e spari. Caos e fumo. Lacrime e altro sangue. Non sono queste le risposte che vogliamo, ci vogliono fermare con nuova repressione, nuovo odio. E' sbagliato! E' sbagliato! E' Sbagliato!
E allora mi guardai attorno: vidi le barricate davanti a noi e vidi gli occhi dei compagni attorno a me.
Piangevo. Ma non chinai il capo, tenevo lo sguardo alto.

Loro sono il silenzio e ce lo impogno. Noi allora.. Alziamo il Pugno.



(Citazioni: Corale (leggenda del re infelice), Fabrizio De Andrè)