Una donna dorme su una panchina

martedì, giugno 26, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 01:01

Lunedì sera, ore confuse di una mezzanotte appena passata.
I piccoli scivolatori dell'area giochi son già a dormire con le leggere lenzuola posate da una mamma o un papà. Il male in polvere ogni tanto si annida nell'aria e riempie i polmoni mischiato a questo fumo di tabacco come fa un bastone a un vecchio zoppo. Questo male si diletta a unire insieme i puntini dei vuoti che alloggiano nell'involucro del corpo: un ammasso di ossa, carne e molecole in eterno movimento. Una passeggiata serve, come se a ogni passo si riesca a recidere i fastidiosi fili che come una ragnatela lega stretti i pulsanti buchi neri. E' un momento, ma ogni tanto torna come la luna piena quando si è meno capaci, quando si è come la sabbia dentro una clessidra finché non ci si ritrova interamente dall'altra parte. E così si ricomincia in meglio, ci si sveglia come da un sonnifero iniettato nelle vene. L'Italia passa in semifinale agli europei, lo spread sale, un militare muore in Afghanistan e domani è un altro giorno.
Intanto su una panchina, una donna dorme. 

Nessun confino

venerdì, giugno 15, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 15:12


Un muro divideva
la terra irrequieta e
sporca di sangue rosso.
La sopravvivenza è
dettata da un fosso
lontano dagli scorci
verdi e rigogliosi
di ulivi gioiosi
tranciati via ormai
da bulldozer infami
da storia che già sai.

Il cielo era pieno
di uccelli, nuvole
non rombo assordante
di aerei neri
con l'obiettivo fiero:
oscurare il sole
con pace devastante
di un'occupazione
e il pianto bambino.

Un dito contro l'altro
un eterno conflitto
di uno oppresso e
di uno che opprime.
Ma qui non c'è vincente
c'è gente innocente
di confini nessuno,
solo innata voglia
di pace, serenità
e non dover piangere
il dolore di nessuno.

Una Mongolfiera

Pubblicato da Dan Angelo alle 00:26


C'era un palo della luce, la luna era lieve e si confondeva con esso. Era un piccolo parco, una macchia verde dentro quel quartiere di periferia. Avevamo lasciato orme sul terriccio bagnato ed era una fredda serata di un autunno e di un inverno che si davano il cambio, si abbracciavano per salutarsi per il nuovo turno di guardia. L'inverno in genere mette paura agli animali, la maggior parte di loro per non guardarlo in faccia si mette a dormire. Mancava un pezzo di legno a quella panchina, nessuno l'aveva curata, più che un parco sembrava un posto dimenticata da Dio o solamente dall'amministrazione comunale, ma non mi interessava tanto stavolta. A trent'anni suonati stare alle due di notte su una panchina da solo non significa nulla di buono.
Mi strofinavo le mani per combattere il freddo, mentre il mio respiro si faceva vapore che si disperdeva nell'aria, e non bastava quel fumo, così frugai con ansia nella mia borsa. Filtro, tabacco e le cartine maledette che si divertono a nascondere. Dovessero essere un personaggio di qualche racconto di Omero, sarebbero delle perfette creature di Ade pronte a molestare le vite dei vili mortali. Così dopo una lunga caccia trovai la carta su cui bruciare le vertigini da buttare fuori dai polmoni, così irrequiete da costringermi a buttarle fuori in qualche modo.
Mille, migliaia. Cominciai a ipotizzare quante di questi fuochi fatui abbia fumato in vita mia, di quante volte abbia riempito di sberle i miei polmoni lacrimanti che chiedevano di smettere ed io , con sorriso maligno nella testa, mi accendevo l'ennesima sigaretta. La città non dorme mai, il rumore delle macchina che corre sulle strade è una costante inscindibile.
Non voglio pensare a niente, la mia vita, ciò che ho attorno. Dunque mi concentrai su un punto nero in una stanza vuota e bianca, lui era il mio pensiero, la mia pace quel punto nero. E' il dolce ricamo che poteva dare la mia immaginazione, il riparo di piccoli e brutti leopardi fedeli a una siepe. Ma tutto d'un tratto rumore. Rumore fastidiosissimo, uno stridulo che invadeva il mio tempio di silenzio, di non rumore. Così quel punto nero cominciava a muoversi e si agitava come se fosse in atto un terremoto e la stanza si riempiva di persone, le conoscevo, tutte persone che conoscevo mi parlavano e non capivo quello che volessero dire. Sembravano che mi vogliano confortare, ma urlavano, è da loro che proveniva il rumore. Non ce la faccio più, devo fuggire.
Il fiato corto è come la vendetta dei miei polmoni, la sigaretta è a terra con la testa fumante. Toccai le assi della panchina come per rendermi conto di dove mi trovassi e mi sentei a disagio. Quel parco era così diverso anni ed anni fa, colmo di speranze e delle esultanze alle prime grandi gioie. Era pericoloso, sentivo che me ne dovevo andare anche da lì. Presi la mia borsa e non ci pensai due volte, imboccai il sentiero davanti a me. Casualmente passò un notturno sulla strada adiacente, così feci uno scatto alla vicina fermata e l'autista si fermò. Non sapevo dove andare, di tornare a casa non se ne parlava affatto. Mi sedetti su uno dei sedili davanti, anche loro sembravano dormire insieme alla notte e guardandomi intorno notai che c'era solo l'ennesimo ubriacone che aveva la faccia spalmata sul finestrino che non reagiva neanche alle brusche frenate dell'incosciente autista che sembrava galvanizzarsi su qualche brano degli agli Iron Maiden. Beato quell'ubriacone, pensai tra me e me.
Quanti film avranno fatto con il protagonista che guarda fuori dal finestrino, chissà che gusto ci provano. Pali, lampioni, marciapiedi e segnali stradali come una canzone noiosa bloccata sul tasto repeat e poi stop. Un semaforo rosso. Il mio sguardo comunque lo sentivo vuoto, come se vedessi ma non vedessi, lo sguardo di un miope che guarda la folla di persone che sembra tutto uguale e così rimango indifferente quasi sollevato. Ma poi anche quello mi diede la nausea.
Scesi.
Non conoscevo il posto in cui mi lasciò la vettura, era un quartiere come un altro. A un certo punto mi imbattei su dei lavori in corso, un bel nastro della polizia municipale su cui scritto il divieto di sosta con indicata la data del termine della fine dei lavori. Con nessuna sorpresa notai che erano già passate due settimane, ma la buca scavata dai lavori era ancora lì. E allora ci buttai dentro la mia borsa, era inutile, in quel momento smisi di fumare, insieme alle lettere in cui rifiutavano "gentilmente" il mio curriculum da fannullone. Almeno questa buca l'hanno iniziata. Sarebbe bello a volte, iniziare e non finire mai. Lasciata la buca, frugai nelle tasche e tornai subito indietro. Anche il mio cellulare volò giù.
Ora mi sentivo più leggero, avevo buttato via tanti dei miei pesi. Ero come una mongolfiera, per volare dovevo buttare le zavorre in eccesso. E così capii tutto.
Cominciai a correre, come un forsennato, come a consumare tutti i miei liquidi e i miei muscoli, non so quanto corsi e per almeno due volte rischiai di inciampare e farmi male davvero, ma almeno sapevo dove andare stavolta.
Panta Rei. Me lo sono ripetuto tante di quelle volte nella mia vita che non so se bastino tutte le mani degli uomini che abitano la terra per contarle. Scorre ancora l'acqua del fiume e chissà per quanto ancora scorrerà.

Ripresi fiato con calma,
diedi un'occhiata alle stelle nel cielo viola della città.
Mi tolsi le scarpe.
E sul ponte,
salii in piedi sul parapetto.

I'm here to listen to your story

domenica, giugno 10, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 01:16

Passi sui san pietrini, il tac tac di ragazze dal tacco alto e il vestito ristretto scandisce le parole sguasciate della clientela di Trastevere. Trastevere inghiotte tra le vie come un formicaio gli operai della città in riposo, in mezzo a un bicchiere di birra e una fumante margherita. Così errano nella propria cupola movente le storie degli uomini, una libreria, un pozzo di racconti chiusi in un paio di scarpe. Scarpe che rallentano il passo, si voltano come gli sguardi di chi le indossa, un occhio su un cartello, un invito innocente. Un sorriso distratto, un apprezzamento involontario, curiosità lasciata sul piatto e chi, i più tentati, offrono parole su cui banchettare. Share my story, why not.
E non è un motto per invadenti social network, è una nuova cornice del quartiere, è il dente cresciuto nella morsa della notte. Orecchie per chi ascolta, bocche affamate di dover dire e far uscire dalla gabbia della propria realtà qualcosa per cui rallegrarsi, intristirsi o semplicemente lasciare. Una mano da allungare, un abbraccio da non rifiutare, senza troppi recinti o muri dipinti.

C'era una volta per te.
E ora anche per me.

Una castagna

venerdì, giugno 08, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 04:32

"Dovessero farmi una foto ora, ne verrebbe fuori un'immagine di un uomo con cinque maschere: un guazzabuglio di espressioni e stati d'animo. Crono, ormai vecchio e stanco, si diverte ancora a giocare con il tempo, maledetto lui e tutti gli dei suoi affini. E forse sono invecchiato insieme a lui, guardami nipote mio: porto i miei anni sulle spalle, ma non i capelli che non mi vogliono più. La mia faccia è una quercia, una corteccia impregnata dalla vita e custode di scene spezzate dalla spegnersi e riaccendersi delle palpebre dei miei occhi stanchi.
E come loro, la mia vita è stato sempre un sali e scendi, non riuscivo mai fare tutto d'un fiato, ma tutto a piccole pause interrotte. Ah.. le mie rughe e la mia pelle, tra loro i monti di tutte le volte che mi scontravo con me stesso, una sfida infinita e mai vinta e ora tutto mi scivola tra i solchi di antiche battaglie. Il mio corpo così si è adattato a me. Siamo tutti adattati, più i tempi vanno avanti e più tutto si adattata. Vogliamo essere il colore che non abbiamo o che non vediamo e così ci accostiamo tutti spalla contro spalla e non siam costretti a conoscere chi ci sta a fianco. Esso ci struscia addosso, come io so della sua presenza, lui sa della mia e questo succede ogni giorno con tante persone.
Potremmo diventare un bel quadro di qualche vecchio artista puntinista, quale ispirazione migliore: non dovrebbe nemmeno esagerare con la tavolozza dei colori poiché a noi piace trovarci abbinati. Percorriamo strade piene di secchi di freddi colori che ogni giorno calpestiamo lasciando strisciate grigie attorno alla nostra città, come a riempire uno di quei libri per i bambini ma con la figurina della nostra scheda elettorale o del nostro conto in banca. Ti chiederai chi è che mette questi secchi. Alza la testa. Così ogni giorno vogliamo affinare l'arte dell'inadattamento. Un limbo maledetto, una via di templi lontani, di eremiti e pochi pensieri vani. Un piede nel secchio ci rimane, a sporcare per procacciar il pane. E mentre pensiamo di schivar e pulire da un lato, sporchiamo dall'altro così per girarci in tondo. Un suono opaco di sottofondo e diventiamo sordi. Più violenta l'immagine, a volte più contorta e più la nostra reazione diventa incerta. C'è una vecchia storia di qualche isola sperduta dell'Oceania che è piuttosto curiosa. Sei maschi indigeni, in questa isola di corallo e cenere, sapevano bene che sarebbero morti e nessuno sarebbe sopravvissuto. Così andarono a raccogliere castagne. Una castagna si appiccicò al pene di un uomo che si mise a piangere e cercò di liberarsene, ma era così attaccata che quando la tolse si strappò anche i testicoli. Fu così che diventò una donna. E da lì l'isola si popolò e loro non si estinsero.
Ci vorrebbe una castagna che si attacchi a queste catene e ci tolga l'oppressione.
E poter assaporare un po' di pura libertà.
Troppo facile non credi? Ma tu intanto tieni questa."

Così il vecchio nonno dagli spessi occhiali tirò fuori dalla tasca della sua giacca una castagna e la consegnò al ragazzo. "Non sprecarla"