La fermata dell'autobus

martedì, ottobre 22, 2013 - Pubblicato da Dan Angelo alle 22:08

 

(La foto è totalmente casuale e nel racconto non è citata. Ma mettere di mezzo la municipale non fa mai male insomma..  sta sempre in mezzo al cazzo comunque)


C'è sempre un diavolo secchio della spazzatura. Sì, dietro ogni fermata si nasconde un secchio della spazzatura come a dirci “si, so che nell'attesa fumerai una sigaretta: perlomeno cicca qui.” , o ancor meglio “prenditi una birra, altera la tua situazione attuale che è meglio, successivamente cerchiamo di sembrare sostenibili ed ecologici: buttala qui dentro.”. Pochi, i salvati o i privilegiati, sono sfuggiti dalla chimera della fermata dell'autobus. La vedi. Ti avvicini inesorabile in quella palude di cemento, dove quell'elenco di autobus fatto cartello giallo ti dice "mo so cazzi tuoi".

E' mattina.
Non ne vuoi sapè un cazzo di nessuno. Sei in ritardo, fai colazione lo stesso, altrimenti muori subito dopo. Ovviamente hai messo le mutande al contrario con l'etichetta bella in vista alle tue spalle, che sembra cantare sul ponte sventola bandiera bianca. Esci dal portone di casa con un occhio chiuso e l'altro pure, chiami l'ascensore. Poi pensi che almeno un po' di musica mattutina, che ti accompagni nel tragitto, funzionerebbe da lenitivo. Cerchi le cuffiette in tasca, un tal groviglio che a saperlo Rubik si sarebbe esentato dal colorare le facce di un cubo perché era divertente. Ovviamente lui, il vecchietto del cazzo dell'interno 8, nel frattempo ti ha richiamato l'ascensore che era arrivato sul tuo pianerottolo. Colorite Reazioni.
Ti incammini verso la fermata dell'autobus sfilando gli ultimi fili delle cuffiette, evitando pali e/o persone come se fossero proiettili matrixiani, fino a quando ti rendi conto che arrivato esattamente a metà tra la fermata e la tua casa avevi bisogno di andare in bagno. Stringi le chiappe.
Scontato dire che nel frattempo l'autobus era passato accanto a te e lo stesso vecchio di merda dell'interno 8 ti raggiunge con il suo bastone chiedendoti “è passato l'autobus?”. Il bastone sarebbe stato un ottimo tappo.

Qui inizia la tragedia quotidiana, di una storia ciclica e infinita.
La mattina è il meticciato suburbano di chi aspetta alla fermata dell'autobus e vicino al secchio della spazzatura ovviamente. Si narrano storie di vecchi impressionisti dell'ottocento che rappresentavano tal paesaggio, come uomini legati a lancette d'orologio appesi dalla non fruibilità del tempo. Mentre eccolo dall'altra parte l'automobilista, diviso dai pendolari dall'assicurazione del veicolo e dall'azione civilizzatrice del parabrezza. Se la ride lui, distratto e frustrato, superbo e altezzoso mentre osserva i poveri condannati: una stazionarietà di anime in fila per Caronte. Semaforo rosso e lui suona. “Che cazzo te soni” pensano tutti all'unisono come un coro di muti.
Per essere romantici quando ti guardi attorno sembri all'interno di una foto color sigaretta di un proletariato urbano, almeno l'irritazione delle facce dice quello. E tutti guardano nella stessa direzione, come Colombo che scruta l'orizzonte aspettando  di avvistare terra. Si, ma quelle non erano le indie, idiota. Si, come quello non è l'autobus che ti serve, coglione. E ad un tratto da un'ala della fermata si sente come un sospiro di salvezza, come se ad un certo punto loro erano i prescelti. Per noi, sfigati che dovevamo ancora aspettare, lo erano. Si deve sempre arrivare a una meta, sennò si è smarriti. Cazzate. Guardi l'orologio. Game Over, sei spacciato. Stavolta non era tanto una cazzata. Il problema della giungla urbana è che non ci sono scimmie, siamo tutti dei cazzo di naufraghi con uno smartphone in mano.
Ma tanto come sempre il bus arriva e inizia il pogo, ma il governo ha dovuto tagliare la musica. Vedi un tuo ex compagno dei tempi della scuola da lontano, fuggi verso la direzione opposta. Tagli la strada a una sprovveduta vecchietta e ti siedi vicino al primo tizio, al quale non riesci a distinguere la vetta del K1 dalla forfora che scendeva come fosse stato Natale. Ti addormenti e l'autista ovviamente non deve far altro che frenare per farti sbattere la capoccia contro il vetro del finestrino. Almeno non mi son ritrovato al capolinea..

Addio o arrivederci

lunedì, luglio 22, 2013 - Pubblicato da Dan Angelo alle 02:35




4.32 del mattino.
Il sole ancora non si era alzato dal letto dell'orizzonte ad accendere l'oscurità della notte, lampi di scintille dell'accendino diventavano fuoco per dare vita a quella sigaretta che come di consueto era diventata un rito a quest'ora. Guardavo fuori dalla finestra osservando le serrande chiuse della gente che dormiva, affinché si ricaricano per un altro giorno che probabilmente sarà uguale a tanti altri precedenti, forse per tutti è l'ora del sonno. Per me no, era  istinto di non conformismo o di disagio sociale cresciuto negli anni, tuttavia quasi mi divertivo a cercare con gli occhi fuori la finestra la luce di qualche camera accesa di un mio simile che piroettava a quell'ora morta. Presto però le mie speranze poetiche si spezzavano nello sciacquone del bagno del panettiere che si alzava per andare al lavoro, mentre l'ombra sulla finestra mi diceva chiaramente "Sì, si sta grattando le chiappe".
Nonostante tutto era bello così, sbuffare il fumo a pochi centimetri dal vuoto allenandomi a guardare di sotto. Penso di aver sempre sofferto di vertigini in qualche modo, però come ogni paura la prendo per mano e me la tengo stretta così guardo giù fino a quando mi va. Col tempo sono migliorato.. sei, sette, otto piani non erano pochi, anzi indagando la mia memoria non mi viene in mente nessuno che si sia salvato da una caduta di otto piani. Mi viene in mente un vecchio film di Kassovitz "La Haine", L'odio, metti insieme ragazzi, polizia, banlieue, scontri, un po di violenza, chi direbbe anche degli sporchi immigrati e boom hai fatto un filmone di quelli che ti spari almeno un paio di volte. E guardando da questa finestra ti torna in mente la frase clue di Hubert "Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene." Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.".
Si, mi sono immaginato varie volte di buttarmi e di sentire quella sensazione in cui stai in aria e cadi cadi cadi.. In quel momento chi sei, cosa sei, cosa pensi. Ma di una cosa sei certo: bang stai per morire. Ma è così profonda la differenza tra la consapevolezza dell'immediato e la spensieratezza di un capolinea futuro ancora non conosciuto? E all'improvviso quella finestra era diventata una fermata del treno, tanto sai dove devi andare!

"Mah" penso tra me e me sbuffando il fumo dalla bocca e in quello stesso momento mi era venuto in mente la vignetta de La profezia dell''armadillo di Zerocalcare dove i brutti pensieri di Camille e Zero se ne stanno seduti uno a fianco all'altra fuori dalla porta, non so esattamente per quale motivo.
La nostra vita è fatta di atomi liberi che corrono, ma colmi del 90% di vuoto e così vuoti siamo noi. La mia non differisce molto, la dipingerei come quella farfalla che nel bel mezzo del bosco vicino alla fattoria del mio caro e defunto nonno, inseguivo cercando di farla mia con il risultato di cadere con il ricordo di una ferita che porto ancora oggi truccata da cicatrice.
E nel frattempo la sigaretta era finita, buttai la cicca dalla finestra e la osservavo sparire sempre più giù nel buio in un quasi cullandosi nell'aria. E' proprio guardando quella cicca che decisi di prendere una corda, la legai saldamente alla valvola del termosifone e mi calai dalla finestra.

4.47 ancora era buio. scendevo.

VII Piano.
C'era questa nonnina che era così particolare a vedersi. Secca, secca, fragile come carta bagnata. Sembrava potersi rompere in qualunque momento e si metteva seduta e rannicchiata con le ginocchia piegate davanti a sé. E lì messa all'angolo era chiusa come una scatolina. Più si allontanava alla vita più lei si faceva leggera: si piegava come le palme di cocco che la han sempre accompagnata durante la sua vita. Un giorno il vento non soffiò più.

VI Piano
Ero piccolo, vivevamo in un piccolo appartamento in un quartiere un po disperso di una Roma nord anni 90'. Faceva freddo quell'inverno e mi ricordo solo un bianco letto di ospedale. Passavo le giornate davanti al Geam Gear della Sega, anche se disgraziatamente spesso dovevo mettermi a pancia in giù per il turno delle punture. La broncopolmonite non mi fermò, mi fece perdere un po di capelli, ma poi andò tutto per il meglio.

V Piano
Era un periodo. Non stavo benissimo, anzi stavo proprio male. Quando sei adolescente o più giovani puoi solo che piangere, non esiste qualcosa che ti possa liberare dai male che del pianto. Avevo paura di rimanere da solo, piangevo, mi faceva male lo stomaco, non riuscivo ad essere sereno. Ma almeno dopo un po le finivo e potevo respirare un po. Tuttavia a volte non riuscivo a starmene a casa, mi misi a piangere all'angolo di una strada perché chiuso in camera nessuno ti può salvare. E un po di passanti ti chiedono come stai e sei hai qualche problema e in quel momento ti salvano: tu dici che va tutto bene, ti alzi e torni a casa.

IV Piano
Pioveva, pioveva ancora qui. Era da una settimana che pioveva solamente, ininterrottamente e quindi vagavo con un libro e una candela in mano. C'era un tempo che quasi odiavo la pioggia, dentro di me è sempre rimasta quella voglia di sole e mi ricordo quando arrivava quel determinato giorno unico e importante, si sperava nel tempo. Erano giorni di nuvole e pioggia grigi come i miei pensieri.

III Piano
Con il tempo ho sempre imparato ad accontentarmi, a cercare di non chiedere mai niente né ai miei genitori né agli amici né a nessun altro. Sono una persona delusa e che delude, poiché non sono mai stato nemmeno in grado di pretendere adeguatamente da me stesso. Non ho paghetta, evito di chiedere soldi ai miei genitori, non mi piace lamentarmi. Sono sotto un anestetico di nome non importa. E così se non importa niente, cosa c'è d'importante? Mi ricorda una persona che mi chiedeva spesso favori, in cambio di un'amicizia che sapeva di falsità.

II Piano
Ero appena uscito dall'operazione all'appendice, ma stranamente avevo un cuore nuovo. L'ospedale e le medicine in realtà ha avuto sempre un riguardo particolare nella mia vita. Non so quante volte ho visto mia madre seduta sul letto di una corsia, con il dubbio che un giorno uno di quei letti prenda e corra via portandosela con se. Avere un corpo guasto e tradire la morte ogni giorno sentendo il "tic tic" dei battiti artificiali, scandendo la giornata a guardare quella busta piena di medicine e pasticche e pensare che quella rappresenti la propria corda che ci lega alla vita. E' crudele.

I Piano
Cos'è stato? Boh. Non lo so più. Io non so niente. Giovane ventenne fresco di estate. Ero così. Quasi brillante apparivo. Così, non sapevo quello che mi sarebbe accaduto lì a poco. Poi tentennai più e più volte nel voler tornare indietro.
"Così resto solo col cielo e altro non vedo e non so ma se tutto è nascosto nel cielo al cielo io ritornerò."

5.23 Terra
Ero riuscito finalmente a scivolare giù lungo tutta la corda fino a giungere a terra con un passettino. Quanto si è sicuri con i piedi per terra, troppo sicuri per me e allora cominciai a correre dentro il palazzo di nuovo e poi verso l'ascensore.
Sanguinavo inchiostro tutte le volte. Era stupido.
Ma sapevo che sanguinare era l'unico modo per uscire da me. Le mani soprattutto lasciavano segni qua e là.

Quando le pareti cominciano a restringesi, quando lo specchio comincia a darti del tu riempilo di ricordi, di speranze, di emozioni, di musica e liti, di illusioni d’epoca. Quindi avevo macchiato ovunque quell'ascensore che in quel momento mi dava un fastidio tremendo, lasciando le le linee delle mie dita ovunque poiché dovevo uscire, asfissiavo. In quel momento odiavo quello spazio stretto, e strabuzzavo gli occhi sulla fessurina vetrata ansioso dell'arrivo. In quel momento l'elevatore sapeva di tomba.

5.33 Alba
Arrivato al mio VIII piano, uscii di corsa da quel buco prendendo un bel respiro. Tornai in camera. I silenzi erano ormai distrutti dal canto degli uccelli e dallo svegliarsi del sole. Oggi la sfumatura dell'alba era qualcosa di meravaglioso e il sole nuovo arrivava a piccoli passi a conquistare il cielo.
Mi riaffacciai alla finestra e presi un paio di forbici con cui tagliare la corda, la quale guardai scivolare giù come la sigaretta precedente."Non mi piace avere i piedi per terra, non sono una persona sufficientemente sicura" pensai tra me e me sorridendo.
Cercando di non far rumore, presi una sedia e la misi vicino alla finestra. A piedi uniti salii sul bordo  in equilibrio, finalmente mi sentivo a mio agio così sempre in bilico.
E così respiravo il sapore di un giorno nuovo con un respiro profondo.

La differenza tra la consapevolezza dell'immediato e la spensieratezza di un capolinea futuro ancora non conosciuto?
Qui c'è la fermata del treno, Addio o arrivederci, quel che cambia sicuramente è il saluto.

Gerekli şeyler, cose necessarie

lunedì, maggio 06, 2013 - Pubblicato da Dan Angelo alle 20:36


La direzione del vento poteva essere la via per il quale sarebbe stato opportuno perdermi, ma il cuore rallenta e la testa cammina a forza di essere vento, così, dritto in direzione ostinata e contraria, mi avviai sulla mia cattiva strada alla ricerca di qualcosa da guardare e ammirare.
Bisogna vedere, bisogna dire, bisogna sentire, bisogna afferrare e prendere le cose per mano e concertarne il peso e la sostanza. Immaginare, penso che a me l'immaginazione non basti, senza alcuna offesa a ciò che per Leopardi potesse significare l'intangibile nascosto dietro a quella siepe. Procedere ed essere impreparati, essere maniacalmente intenti a scrutare cosa c'è dietro l'angolo.
IO mi sento di far così e non mi ha mai fatto pentire l'avvertire la vita come granuli di sabbia che scivolano sulla palle passandoci un mano sopra. Ho conosciuto, ho incidentato momenti che le lenzuola di un letto racchiudevano come la copertina di un libro.
E quando ho una buona mela la mordo, diavolo se la mordo, è più forte di me. Non credo che a furia di osservarla e attenderla questa si lasci sciogliere nei miei pensieri e va da se che la mordo di gusto, assaporandola e gondendo dei suoi dolci succhi.
Si, prendo la vita a morsi digerendone i colori come secchiate di malumori e benessere. Credo che sia per questo che quando il mio dentista mi visitò si sorprese di dovermi eliminare quelle evidenti undici carie che decoravano i miei denti, e forse fu ancora più sorpreso che dopo il settimo dente mi chiese:
"Guarda che possiamo rimandare, sei sicuro che vuoi continuare?"
"Ma sì, non c'è problema" risposi.
La sua espressione si chiedeva se avessi uno strano rapporto col dolore.
Io me ne torno dai miei giorni in questo modo, inforcando la bici troppo distratto a guardami intorno fino a che vedo una giovane mamma stringere al cuore la sua piccola creatura come se fosse la sua armatura a difesa dal mondo. Io sorrido quasi senza farci troppo caso, lei mi nota e sorride anche lei.
Allora va tutto bene.

Fogli di Febbraio

venerdì, febbraio 15, 2013 - Pubblicato da Dan Angelo alle 18:31


Troppi fogli bianchi. Come di consueto ultimamente non riesco a scrivere, avere voglia di condividere qualcosa ed esprimerle in parole, mettere le idee su inchiostro. Non ho idee: solo pensieri vaghi, tanti puntini sul foglio da poter ottenere una creatura mistica, ma il risultato è sempre qualcosa di informe che non dice niente, non convince. Essere interessanti, questo quello che ci vuol competere poiché si vuol scrivere sempre qualcosa di prezioso come per aggiungere uno scellino d'oro nella mia(vostra) sacca di monete e poter spendere come polline nell'aria in primavera. Ma non sempre succede e mi ritrovo in difficoltà come quella parola che si piazza sulla punta della lingua e che rimane là chiusa tra i denti muta e silenziosa senza poter esprimere il proprio concetto premettendo che ci sia. E' la routine di un giorno come un altro, di una biblioteca copiosa e di un esame non dato. Dannato tu sia bianco e nero della monotonicità, eterna mortalità dell'uomo che con le tue scale di grigio non ci fa distinguere un drappello rosso da quello nero, dunque è così che ci si ritrova ogni volta a disperder parola di noia, a parlar di noia e di quello che si vorrebbe fare: non è forse vero che si passa troppo tempo a discutere dei propri intenti e niente di quel tempo viene usato per poterli dipingere sulla tela della propria vita?

Ahimè come contadini ci spezziamo la schiena per coltivare il nostro raccolto di dubbia piantagione, una catastrofe giocare d'azzardo con la nostra sussistenza, le nostre soddisfazioni e i nostri motivi d'orgoglio. E' tutta una sorta di indebitamento mentale che abbiamo nei confronti di un determinato noi stessi, che a sua volta è condizionato dalle congiunture che si sovrappongono come spicchi di un'arancia per mantenere un'interezza adeguata per far si che si rimanga a galla come boe in un viscido mare di vita. E così dal tempo delle proposizioni si passa alle lamentele, e così ancora alla noia.
Ci piace così infondo, no?

E piano piano ci si accartoccia come un foglio di un tema che non ci piaceva e abbiamo cestinato come niente, accartocciati come la pelle della mia prozia, così accartocciata che era diventata un cristallo appoggiato sulla panchina di tutti i giorni, leggera come polvere appoggiata sulla mensola e nelle sue rughe passava il vento di ogni giorno inesorabilmente. Povera prozia, non un albero, ma un albero tornato ramoscello che si scuoteva lento ad ascoltare solo rumore di vento.
Oggi sono come lei un ramoscello: lento intento di una mano su una tastiera, privo di un'intenzione vera e di un'idea concreta. Che palle, penso.
Quante risate si sarebbe fatto Carlo V, così intenti noi a impare a memoria parole che narrano la sua storia quando lui alla nostra età saliva sul trono di un impero. Pff altro che dominus mundi.  Così non ho niente da regalare, né per me né con chi con me il piatto lo vuole condividere e nascosti dal freddo di un inverno ormai che sa di rancido,  in attesa (tanto per cambiare) di una più colorata primavera.

Ma questo cambiamento non facciamo che aspettarlo, sembra che per attenderlo sia diventato una chimera e questo forse il nostro più grande errore e come ogni giorno mi tengo questa sensazione.
Così si torna a casa in bici con un po di fiatone, ma con un pensiero in meno sul blog annoiato quanto il suo scrittore. Domani si torna in biblioteca, ma il sabato dice no e questo è l'evento più grande di una settimana di noia dove il cambiamento è la chiusura di un convento.
Forse faremo qualcos'altro domani, ripeto domani. Bah va come viene, chi lo sa, si vedrà, ma non ci siamo un po' stufati? Vediamo domani...