Conversazioni

giovedì, settembre 27, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 16:45


Julien aprì le tende, mentre il sole faceva luce sui suoi capelli tesi a veranda. Le pieghe della coperta descrivevano vallate alternate a onde di mare. Un naufragare.
Si sedette mentre cercava le parole da dire in fondo alla corteccia del suo animo.
-Ne vale la pena? Una domanda che pone un rischio e una posta in palio, ma non è solo quello. Sei disposto a metterti in gioco? Rimanere lì dove sei non fa altro che tenerti lontano dai tuoi dolori e mantenerti su una quiete opaca, peggio ancora. Perdere il senso del gusto non ti fa onore. Voglio solo trovare un modo per farti uscire dalla tua gabbia dorata e falsa. Falsa perché l'aspetto inganna, le sbarre appaiono seducenti come non mai e cercheranno sempre il modo che tu non riesca a fare a meno di loro. Sii forte, voglio che tu lo sia, perché, diavolo, al solo pensare al tuo modo di stare inerme mi vien da mordermi le labbra fino a sanguinare. Ma il sangue non è il mio, è il tuo.
Bisogna esser spietati con se stessi, se da se stessi si vuole ottenere qualcosa di migliore. E so meglio di te, che lo vuoi.
E cavolo. Esci e prendi ciò che non riesci. Tu che puoi, diamine!-.
Dalla profondità delle coperte un sussulto, un pianto e un sollievo.

Cafuné

martedì, settembre 25, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 19:38



Cafuné
(portoghese brasiliano)
l'atto di passare delicatamente le dita tra i capelli di qualcuno

Clementine aveva preso una sedia dal tavolo della scrivania per poter raggiungere lo scaffale più alto della libreria color marrone invecchiato, dove era posti i libri nascosti o dimenticati, quelli più difficili da raggiungere, taciturni e in lunga attesa di esser sfogliati. Sì, uno a caso e con le punta delle dita venne giù un signorotto dalla copertina verde scuro pronto come un bimbo a saltar in braccio. Era un vecchio manuale di italo-portoghese, quello brasiliano nello specifico, e Clem - così veniva chiamata dagli amici - lo posò sulla scrivania e ci soffiò sopra come a delle candeline portantdosi via il mistero celato dietro una nuvola di polvere. A occhi chiusi aprì una pagina e notò subito una parola sottolineata da una leggera riga di matita. Cafuné ripeté tra se e se.
Non comprese se fosse per il significato o per il buffo nome, ma improvvisamente si ritrovò con un sorriso stampato in faccia, subito ritratto come se si sentisse una sciocca a mostrar i piccoli denti a un libro.
Clementine non usciva da giorni, si era insidiata in una strana campana di vetro dove si dilettava a far volare uccelli di pensieri chiusi in quel suo spazio di libertà, o di prigionia. Era perfettamente cosciente che non le piaceva ritrovarsi in quella condizione, eppure nella sua cameretta l'autunno delle bianche pareti la tenevano lì custodita e così trascorreva le giornate a scrivere quando il rumore della realtà era lontano. Era convinta di vivere uno stato di atarassia, dove si è felici di esser tristi, ma non si provava nessuno dei due sentimenti come il continuo cambiare del tempo in sole e poi in pioggia in un limbo in cui non ci si bagnava e non ci si asciugava in tempo, tanto che nel frattempo settembre era alle porte.
Quel giorno scrisse così. L'atarassia è un luogo dove il tempo non esiste. Tutto viene compiuto con la lentezza necessaria, senza fretta e senza noia. Tutto è solo una somma di azioni iniziate e poi finite senza troppi motivi e troppe conseguenze, se non nessuna. È come le cicale d'estate che accompagnano il sole con il loro vociare così per colmare il silenzio, così tanto per farlo. È' una casa vuota dove ladri che si trascinavano dietro speranza e paura non trovano nulla da rubare, costretti a riportarsele indietro senza lasciar traccia.
Soddisfatta, continuava però a rimuginarci sopra seduta sopra il letto come un vecchio monaco buddista alla ricerca del proprio io sfuggevole: alla fine l'immagine dell'uomo è riconducibile a quella di un cane che cerca di mordere la propria coda, pensava.
Non fece in tempo a concludere quel pensiero che il letto si fece più scomodo a tal punto da diventar duro come roccia e attorno a se non più una opaca stanza, ma una viva sorgente, uno specchio d'acqua dove si disegnava l'immagine di una ragazza assopita da se stessa, la grottesca figura dei giorni persi. Clem non se ne capacitò e, anzi, provò un tale terrore che si spaventò e scattò in piedi all'istante chiedendosi in quale pozzo fosse precipitata, se non fosse per il sole lucente che le abbagliò gli occhi abituati all'oscura luce della sua casa e dalla roccia bagnata sotto i piedi che la fecero cadere in acqua. L'acqua era talmente fredda che più cercava di richiamare i nervi del corpo, più questo non diventava suo e lentamente si inabissava mentre la luce si smarriva nelle tenebre del fondo. Rinunciò a tutto, chiuse gli occhi e si immaginò risalire fino in superficie.

Cosí li riaprì come per vedere l'esterno e riprendere disperatamente il fiato, ma si ritrovò sul balcone  mentre fuori tuonava la pioggia di settembre, talmente tanto che era totalmente bagnata dallo scorrere della vita.