"L". Tutto inizia così. episodio 1.

giovedì, ottobre 25, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 21:01


Tutto inizia così, con lo sguardo perso nel vuoto mentre il compagno incontrato per caso il pomeriggio racconta l'ennesimo episodio della sua stupida e inutile vita, rendendo stupida e inutile anche la tua in quei cinque minuti trascorsi con lui, in poche parole di come una somma di coincidenze poteva affascinare Fabrizio e di come a me non me ne fregava un cazzo.
Mi chiamo L, si proprio così e-l-l-e, ora vi chiederete se sia il mio vero nome o il soprannome, perché e bla bla bla vari. No, non è l'etichetta affibbiata all'anagrafe dai miei genitori quando son nato, né è un soprannome che è derivato da un evento o un gioco, così mi han chiamato un giorno e così mi son cominciato a chiamare io: "L". Nessun senso e nessun perché come nessun senso e nessun perché sono io.
E in questo filo di pensiero parlo a voi, sì voi internauti, gente comune o youtubers o come minchia volete chiamarvi, voglio parlare a voi persone che non avete volto per il sottoscritto e presupposto ciò, potrebbe, anzi è possibilissimo, che al di là di questa registrazione non ci sia nessuno, ma tanto vale sia per questo che la prossima volta che mia madre entra nella mia camera e chiede "con chi parli?" io risponda "con Nessuno, ma!" tanto che uscirebbe indispettita pensando che le abbia regalato una mia solita scusa.
Sì, cari e care, tutto è iniziato quando ho incontrato quell'amico mio, o meglio conoscente, il Fabrizio che tanto in gamba quanto non vedeva l'ora di dire le cagate avvenutegli quel giorno al primo povero disgraziato che avrebbe incontrato. Ed ecco che entro in scena io! Oh Mr L che casualità! In altre parole per gli amici anglosassoni LOSER o per chi è anglonuncapisco SFI-GA-TO. Non avendo avuto uno specchio a portata di mano, non posso descrivere l'ilarità del mio volto esposto in un sorriso misto al terrore di fronte a quel malcapitato incontro, ma casualità delle casualità... l'Intuizione! E questa porterà quel mio stesso terrore a trasferirlo sugli sbrilluccicosi schermi dei vostri pc. Eh già, la Ggente (sì con due g) ha bisogno di parlare, di dire, di esprimere sennò non ce la fa! Ora se siete arrivati fino a qua stareste dicendo "E perché non lo fai con l'amici tua?". Eh no cari, è qui che vi sbagliate, già vi siete dimenticati? Son sempre io, L, quello di prima, il tizio senza senso. E senza senso le mie cagate le racconto qui sul fantasmagorico e attualissimo mondo del YouTubo!
Il pastore digitale mi ha invitato a prender parte del gregge, in un canale dove per minuti parlo io! E  messo già in conto che parlo a nessuno, in un mondo dove non ci rappresenta nessuno e in aria di primarie ed elezioni, qui si vota nessuno!
Se ancora mi stante sentendo cazzi vostri, son solo un ragazzetto, un mentecatto di oggi direbbe la vecchia bavosa del quinto piano, per voi è più facile.. L.

La spia rossa della telecamera si spense come un sipario a fine dello spettacolo, due tasti pigiati sulla tastiera ed L tentennò prima di cliccare su Upload. "So popo un cazzone" pensò e caricò il video.
Una sigaretta. Un agglomerato di scure sensazioni.
Una noia. L'insoddisfazione di tutti.
Tutto inizia così. 
Una cicca per terra e un video su youtube e tutte le dovute imprecazioni.

Conversazioni

giovedì, settembre 27, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 16:45


Julien aprì le tende, mentre il sole faceva luce sui suoi capelli tesi a veranda. Le pieghe della coperta descrivevano vallate alternate a onde di mare. Un naufragare.
Si sedette mentre cercava le parole da dire in fondo alla corteccia del suo animo.
-Ne vale la pena? Una domanda che pone un rischio e una posta in palio, ma non è solo quello. Sei disposto a metterti in gioco? Rimanere lì dove sei non fa altro che tenerti lontano dai tuoi dolori e mantenerti su una quiete opaca, peggio ancora. Perdere il senso del gusto non ti fa onore. Voglio solo trovare un modo per farti uscire dalla tua gabbia dorata e falsa. Falsa perché l'aspetto inganna, le sbarre appaiono seducenti come non mai e cercheranno sempre il modo che tu non riesca a fare a meno di loro. Sii forte, voglio che tu lo sia, perché, diavolo, al solo pensare al tuo modo di stare inerme mi vien da mordermi le labbra fino a sanguinare. Ma il sangue non è il mio, è il tuo.
Bisogna esser spietati con se stessi, se da se stessi si vuole ottenere qualcosa di migliore. E so meglio di te, che lo vuoi.
E cavolo. Esci e prendi ciò che non riesci. Tu che puoi, diamine!-.
Dalla profondità delle coperte un sussulto, un pianto e un sollievo.

Cafuné

martedì, settembre 25, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 19:38



Cafuné
(portoghese brasiliano)
l'atto di passare delicatamente le dita tra i capelli di qualcuno

Clementine aveva preso una sedia dal tavolo della scrivania per poter raggiungere lo scaffale più alto della libreria color marrone invecchiato, dove era posti i libri nascosti o dimenticati, quelli più difficili da raggiungere, taciturni e in lunga attesa di esser sfogliati. Sì, uno a caso e con le punta delle dita venne giù un signorotto dalla copertina verde scuro pronto come un bimbo a saltar in braccio. Era un vecchio manuale di italo-portoghese, quello brasiliano nello specifico, e Clem - così veniva chiamata dagli amici - lo posò sulla scrivania e ci soffiò sopra come a delle candeline portantdosi via il mistero celato dietro una nuvola di polvere. A occhi chiusi aprì una pagina e notò subito una parola sottolineata da una leggera riga di matita. Cafuné ripeté tra se e se.
Non comprese se fosse per il significato o per il buffo nome, ma improvvisamente si ritrovò con un sorriso stampato in faccia, subito ritratto come se si sentisse una sciocca a mostrar i piccoli denti a un libro.
Clementine non usciva da giorni, si era insidiata in una strana campana di vetro dove si dilettava a far volare uccelli di pensieri chiusi in quel suo spazio di libertà, o di prigionia. Era perfettamente cosciente che non le piaceva ritrovarsi in quella condizione, eppure nella sua cameretta l'autunno delle bianche pareti la tenevano lì custodita e così trascorreva le giornate a scrivere quando il rumore della realtà era lontano. Era convinta di vivere uno stato di atarassia, dove si è felici di esser tristi, ma non si provava nessuno dei due sentimenti come il continuo cambiare del tempo in sole e poi in pioggia in un limbo in cui non ci si bagnava e non ci si asciugava in tempo, tanto che nel frattempo settembre era alle porte.
Quel giorno scrisse così. L'atarassia è un luogo dove il tempo non esiste. Tutto viene compiuto con la lentezza necessaria, senza fretta e senza noia. Tutto è solo una somma di azioni iniziate e poi finite senza troppi motivi e troppe conseguenze, se non nessuna. È come le cicale d'estate che accompagnano il sole con il loro vociare così per colmare il silenzio, così tanto per farlo. È' una casa vuota dove ladri che si trascinavano dietro speranza e paura non trovano nulla da rubare, costretti a riportarsele indietro senza lasciar traccia.
Soddisfatta, continuava però a rimuginarci sopra seduta sopra il letto come un vecchio monaco buddista alla ricerca del proprio io sfuggevole: alla fine l'immagine dell'uomo è riconducibile a quella di un cane che cerca di mordere la propria coda, pensava.
Non fece in tempo a concludere quel pensiero che il letto si fece più scomodo a tal punto da diventar duro come roccia e attorno a se non più una opaca stanza, ma una viva sorgente, uno specchio d'acqua dove si disegnava l'immagine di una ragazza assopita da se stessa, la grottesca figura dei giorni persi. Clem non se ne capacitò e, anzi, provò un tale terrore che si spaventò e scattò in piedi all'istante chiedendosi in quale pozzo fosse precipitata, se non fosse per il sole lucente che le abbagliò gli occhi abituati all'oscura luce della sua casa e dalla roccia bagnata sotto i piedi che la fecero cadere in acqua. L'acqua era talmente fredda che più cercava di richiamare i nervi del corpo, più questo non diventava suo e lentamente si inabissava mentre la luce si smarriva nelle tenebre del fondo. Rinunciò a tutto, chiuse gli occhi e si immaginò risalire fino in superficie.

Cosí li riaprì come per vedere l'esterno e riprendere disperatamente il fiato, ma si ritrovò sul balcone  mentre fuori tuonava la pioggia di settembre, talmente tanto che era totalmente bagnata dallo scorrere della vita.

Quello che non ho

sabato, agosto 11, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 05:32


Se scrivo di notte, ora in questo momento, lo si fa con la malinconia di una penna blu a rispecchiare uno stato d'animo che in inglese lo si chiama con il medesimo colore e lo stesso malcontento. Tener i calzoni con le bretelle e sentire le monete facendole saltellare dentro a una mano e star con gli occhi in su in un giorno di stelle per prenderle nella caduta e non perderle come i calzoni attaccati a quelle stupide bretelle. A volte a tener su la vita è come essere una spiaggia e sentire mancare granelli di sabbia e non poter contarli, è facile mantenere la propria dose di fantasia in fila da anni aggrappati a parole nascoste a minacce come coltelli. E mentre il mondo s'affaccia, c'è chi dice che quei mari non vorrebbero più vederti, quindi meglio per te evitarli, come dire a un gabbiano in montagna devi esiliarti. Ma Jonathan Livingston nacque gabbiano, visse esule e tornò libero abbracciandosi e scannandosi, legato alla via un paio di ali e due penne. Forse a dar ragione alla gente, ci si odia di più, meglio sorrider alla sorte che a una fine peggiore. A dar ragione a profeti, c'è da crederci troppo e non alzar più un dito. A dar ragione a statistici, troppi numeri e poche parole, meglio esser sciocchi e di poesie far prole. Forse alla ragione meglio non dar, meglio morir a non accendere la tv in un fuoco di orizzonte, sull'equilibrio di un sole che si spegne. Lai, la la lai. A cantar non ci si rompe i coglioni, come far gli uomini di partito a levigar le poltrone di pelle e riempir le prigioni di celle chi è vestito da finto criminale, un qualsiasi ribelle. E a mangiar le stelle, oggi si è cestisti in canestri di vuoti e tirar palloni di carte, fogli pieni di mancanze di cose mai avute. E la puzza sotto il naso non se ne va più, come i piedi nelle scarpe rimaste a sudare ad aspettare una passeggiata in cortile dove è vietato calpestare il prato, per qualche sorte di maestoso tabù. E quanti cazzi sul caffè e le sigarette, eppure ci sei te come una tua tisana prima del letto ad allontanar le stanchezze. Vorrei bussar, ma chiudo la mano con carte sul tavolo e cuffiette solo con De Andrè e niente tressette. Quello che non ho sono le tue pistole per conquistarmi il cielo per guadagnarmi il sole. Lui scrive suona canta e non mente.

Aria manca l'aria, non si respira.

sabato, luglio 28, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 04:03

Quattro pareti bianche che ti circondano e ti fissano nel loro imperturbabile silenzio. 

Aria manca l'aria, non si respira. 

Perlomeno l'aria è presente, ma è aria di mancanza. Ma sì certo manca qualcosa! Tutto si fa più piccolo, tutto si fa stretto!

Aria manca l'aria, non si respira. 

Scorri la mente.. quanti paesaggi, persone, oggetti, momenti. Sono tanti pezzetti. Ci sono i pezzetti nuovi che si fanno spazio fra gli altri, mentre intanto altri pezzetti, alcuni presenti da tempo, si perdono scivolano via. Poi ci sono pezzetti che diventano più grandi, altri più piccoli. I pezzi più grandi sono pesanti.

Aria manca l'aria, non si respira. 

E' come un puzzle, mancano dei pezzi. Dove sono i pezzi che voglio, dove li devo cercare, dove si nascondono. Silenzio.

Aria manca l'aria, non si respira. 

Incontri altre teste, per i più pignoli persone. Altri pezzi. E loro mostrano soddisfatti pezzi pregiati presi chissà dove. Come fotografie inestimabili stanno lì altezzosi. E tu?

Aria manca l'aria, non si respira. 

Guardi, riguardi, cerchi. Io ho gli stessi pezzi! E spesso anche di meno, perché persi. Sospiri. Manca qualcosa, un vento da inseguire. Aria.

Aria manca l'aria, non si respira.

L'inutilità tra un caffè e una sigaretta

mercoledì, luglio 11, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 02:53


Piccoli semicerchi avvolgevano il cielo come una parata inaugurante l'avvenire della nuova primavera e così le rondini facevano acrobazie in aria come aereoplanini di carta che rimanevano sospesi a dispetto della gravità. Il caffè schiumato si sfumava al girare del cucchiaino, ad unire insieme quel misto dolce amaro risvegliante le menti assopite. Oscar apprezzò lentamente quella schiuma caffè-latte e poi, tutto d'un fiato, bevve la tazzina. Non soddisfatto aspettò il momento giusto per cogliere come pesci al retino l'attenzione dell'indaffarata barista dai mori capelli corti.
-Ti posso chiedere anche un bicchiere d'acqua?- chiese subito lui. - Certo.-  - Grazie Mille.- -Prego.- rispose lei con un sincero sorriso, mentre appoggiava il fresco bicchiere e tornava senza perdere attimo a servire i clienti. Il bar quel giorno ospitava più ospiti del solito, come se insieme alla primavera le persone avessero deciso di uscire dal torpore degli appartamenti di città e prendersi qualcosa tra il traffico delle vie. Il bancone era come un'orchestra frenetica fra lo sbattere di tazzine o lo sbattere del caffè sulle macchine, mentre le foci come grancasse tuonavano a gran richiesta del prodotto da loro prescelto. Oscar a differenza di quella freneticità, faceva tutto con ostentata calma e come per perdere ancor più tempo prese la bustina con lo zucchero rimanente e ne riempì il fondo della tazzina giocandoci distrattamente con il cucchiaino. Intanto si guardava intorno dando un po' un'occhiata chi riempisse il locale. I clienti abituali, vecchietti amanti del gioco a carte che si scambiavano opinioni sul nuovo ponte in città. -Sembra sempre meglio ai "nostri tempi", eh?- pensò Oscar tra sé e sé. Più in là, oltre un gruppetto di antipatici impiegati dalle lunghe cravatte superbe, aveva riconosciuto delle sue vecchie conoscenze, ma non aveva nulla di sprecar fiato e intraprender il rito di convenevoli che non interessava nessuno, allorché fece finta di non veder nulla e li superò con lo sguardo. Sui verdi tavolini di plastica poggiavano due borse di marca, o forse no, lui non se ne intendeva, ma lo dovevano essere da come se ne stavano ben posate con il loro aspetto altezzoso e le rispettive proprietarie accanto a loro come se avessero piantate  bandiere da sventolare. Indubbiamente delle belle ragazze, Oscar aveva tanti difetti ma aveva avuto sempre un buon gusto in fatto di donne, erano entrambe castane, una liscia e l'altra castana, vestiti curati con la maniacalità di uno stilista sbruffone che si dimenticava di esser pelato, visi altrettanto curati dipinti dai loro trucchi, quasi artificiali, talmente aberranti della loro consapevolezza di dover attrarre e far annusare il miscuglio di profumi da mischiare agli ormoni primaverili, che lui non ci perse che qualche battito di ciglio poiché il loro gesticolare e le espressioni cretine non potevano che esprimere qualche infima discussione sul loro shampoo o il nuovo amore dei prossimi tre giorni. Non c'era nulla o nessuno da poter catturare il suo interesse, così rotto l'ultimo granello di zucchero, uscì dal bar con una mano nella tasca a giocare con i due pezzi da dieci centesimi e lo scontrino accartocciato che sarebbe finito in lavatrice erroneamente. Un anno fa, il carcere. Un anno fa il suo paese era nel pieno di una delle più grandi proteste popolari che la storia potesse ricordare, lui ricorda bene i sorrisi, la voglia di cambiamento che leggeva negli occhi della gente. Amava spassionatamente quegli occhi, così uniti per le strade e pronti a riprendersele a ogni costo, talmente ostinati che non doveva accadere. Divise blu, sirene. Una fredda telecamera di una banca puntata e lui venne accusato di resistenza a pubblico ufficiale mentre liberava un suo compagno dalla violenza del manganello. Così per direttissima, le sbarre. Le urla che gridavano ingiustizia non valevano per chi le leggi le decideva o le applicava. Ricordi da lasciare sbiadire come macchie nella candeggina. Così non rimase la rabbia o l'odio, rimase l'accettazione e lo sconforto. Il vuoto.
Superato l'angolo Oscar prese il 16, un tram che lo portò un paio di quartieri nella parte più a nord della città dove pensò di farsi una passeggiata. Oggi era la sua giornata libera e non aveva nulla da fare, gli amici erano occupati e non aveva la voglia di sforzarsi ed alzare la cornetta per trovarne uno disposto a passare del tempo con lui come fosse una supplica, a volte avvertiva che fosse così. I mezzi pubblici erano una sfida: un incrocio di arti umani incastrati dentro una scatola di ferro e asserragliati come lamine di un rasoio, il vecchio più pazzo o solamente più irrequieto degli altri pedoni non resistette, cominciò a urlare bestemmie all'aria mentre dall'altro lato del mezzo lo sguardo dei più sconcertati sembrava fare il segno della croce con gli occhi. Ad Oscar era indifferente, faceva parte del variegato dipinto della metropoli e dello scarso servizio della mobilità in città, anzi quel vecchio gli stava quasi simpatico, infondo gridava ciò che a tutti, in quel tram, faceva capo tra i loro pensieri. Dopo qualche fermata lasciò l'anziano alla sua invettiva e scese dal tram. I passi andavano allo stesso andare della monotonia della città, l'odore dello smog, i passi affrettati delle persone sempre dettati dalla destinazione da raggiungere il più veloce possibile, l'insostenibile attesa di un semaforo verde e le vetrine senza vita di fantocci vestiti. Nessuno si scandalizzava più e sembrava che del clamore dell'anno prima si fosse persa memoria e tutto sia stato insonorizzato da invisibili pareti di attonito silenzio. Dopo qualche minuto di camminata, Oscar si imbatté in un piccolo giardinetto a strappare il cemento, con le giostre dove i bambini del quartiere scendevano giù per lo scivolo arancione o si arrampicavano con gran fare nella ragnatela di corde sotto l'attenta supervisione di genitori, i quali sembravano scambiarsi i miglior consigli che la televisione aveva mandato la stessa mattina per far crescere sani e forti i loro pargoli in questa società fantastica, pensò che si poteva fermare a una panchina di legno rovinate, ma l'idea di sentire i nomi di strani prodotti gli mise più nausea allo stomaco rispetto alle loro grandi promesse di alta digeribilità. Sorpassato l'angolo verde, incontrò un giovane senzatetto, questo come se avesse imparato una parte a una scuola di recitazione, occhi inarcati insieme alle sopracciglia che puntavano a guardare dritto nei suoi, a cercar il punto in cui scavare la bontà dell'anima e della compassione e con voce melodicamente supplichevole gli chiese qualche moneta invano: Oscar scosse la testa. I mendicanti riescono a far nascere nell'uomo il malessere nei confronti di chi è meno fortunato o semplicemente ha meno di noi, in qualunque caso se decidessimo di svuotare o no le briciole che colmano le nostre tasche, non colmeremo mai a dovere il malessere del debito che sentiamo nei loro confronti. Quei due pezzi da dieci centesimi si fecero indescrivibilmente pesanti nelle tasche di Oscar, quel debito lo sentiva anche lui, come sempre ma sapeva che poteva farci poco. Era una giornata noiosa di quelle che il mondo se ne ricorda cento e le dimentica tutte insieme, stavolta non trovò nulla di esaltante o poetico in quelle strade sporche dai mozziconi di sigaretta o da cesti di legno usciti dal mercato accanto, tanto meno dagli sguardi vuoti della gente degni solamente di segnalare la propria presenza e di farti far attenzione a dove mettere i piedi, giammai potresti intralciare il loro percorso. -Era quasi meglio chiamare qualcuno.- pensò lui. Frugò nell'altra tasca dove c'era il suo pacchetto di marlboro rosse e l'accendino, anch'esso rosso. -Uhm, le ultime due. Dovrò ricomprare presto un pacchetto.- Uno sbuffare accompagnato dallo sfrigolio della pietra focaia e si accese la penultima sigaretta dando largo spazio alla morbide vertigine di fumo nei polmoni, per poi lasciarla galleggiare via nell'aria.  Più tirava e più la sigaretta si accorciava, ancora tirava e ancora la sigaretta si accorciava. 
Ad un tratto una frenata brusca. Una punto bianca aveva inchiodato e quattro uomini in borghese scesero all'istante, uno di essi urlò. -FERMO!- Il loro obiettivo era un ragazzo nero con una leggera camicia verde, un grosso zaino sulle spalle, jeans blu anneriti sugli orli e scarpe vistosamente consumate. Cercò subito di scappare. Niente da fare. I quattro gli stettero subito addosso, un colpo sul capo e a terra. Il ragazzo, ormai braccato, con la forza della disperazione abbracciò un palo segnaletico, come se fosse l'albero maestro di una nave in tempesta. -Adesso sono cazzi tuoi, stronzetto.- Disse freddamente e con odio insensato uno dei quattro mentre tirava fuori delle manette. La sigaretta fumante rotolava a terra sul grigiore del marciapiede, lasciata a metà in un pozzo di asfalto. Oscar correva verso i quattro. Correva e senza rendersene conto già stava urlando -COSA STATE FACENDO, NON POTETE!.- Non fece in tempo ad avvicinarsi che quello più grosso, lo spintonò via. Oscar sbatté la testa su un muro e perse i sensi. In quell'attimo tornò a un anno fa quando tirava via per la giacca il suo compagno per salvarlo dalla violenza dell'ordine. Anche in questo giorno inutile, altro sangue doveva scorrere. In modo inutile.


Dedicato a un ragazzo somalo, rifugiato politico, il 10 Luglio 2012 veniva fermato, strattonato e spintonato da quattro persone scese da una Renault Clio che non si identificano come carabinieri. Ragazzo in seguito rilasciato con le scuse e senza nessuna accusa. 

Strappo

domenica, luglio 01, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 13:12


Una pagina di un libro strappata dal resto della storia, presa di forza dalla imponente mano di un destino triste, così dura e violenta da far male. Uno strappo deciso, talmente di netto che non lascia nient'altro che quello che non si ha. Le righe, una trentina, rimangono asserragliate e rigide, precise in fila dietro l'altra, quasi come tenessero gli occhi chiusi e le saracinesche abbassate, immobili come guardie inglesi di fronte alla più enorme calamità. E le parole, ossa di lettere e carne di simboli, se ne stanno poggiate su di loro appollaiate come corvi che raccontano le sventure di quella terra ormai di sabbia e sassi. Oscura è la loro presenza come rocce legate alla schiena di schiavi che portano il peso di una penitenza inevitabile per ciò che hanno fatto o non hanno adempito. Una sete incredibile rimane attonita e non colmata, fosse acqua di lago sarebbe altra strada, ma il sole non sorge e son scarpe rotte costrette ad andare. Quindi è solo acqua di mare, che rispecchia sotto un ghigno sbeffeggiante l'aspetto ridicolo. Meglio evitarlo.
Un codice a barre sulla coscienza, eppure questo mondo non sembrava cattivo.
Con le mani si facevano castelli e un giorno son caduti, caduti per sbaglio. Ad andare dalla parte sbagliata si muore.
Passava solo una nuvola quel giorno, eppure in quel sole mi han ammazzato e son ancora vivo.

Una donna dorme su una panchina

martedì, giugno 26, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 01:01

Lunedì sera, ore confuse di una mezzanotte appena passata.
I piccoli scivolatori dell'area giochi son già a dormire con le leggere lenzuola posate da una mamma o un papà. Il male in polvere ogni tanto si annida nell'aria e riempie i polmoni mischiato a questo fumo di tabacco come fa un bastone a un vecchio zoppo. Questo male si diletta a unire insieme i puntini dei vuoti che alloggiano nell'involucro del corpo: un ammasso di ossa, carne e molecole in eterno movimento. Una passeggiata serve, come se a ogni passo si riesca a recidere i fastidiosi fili che come una ragnatela lega stretti i pulsanti buchi neri. E' un momento, ma ogni tanto torna come la luna piena quando si è meno capaci, quando si è come la sabbia dentro una clessidra finché non ci si ritrova interamente dall'altra parte. E così si ricomincia in meglio, ci si sveglia come da un sonnifero iniettato nelle vene. L'Italia passa in semifinale agli europei, lo spread sale, un militare muore in Afghanistan e domani è un altro giorno.
Intanto su una panchina, una donna dorme. 

Nessun confino

venerdì, giugno 15, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 15:12


Un muro divideva
la terra irrequieta e
sporca di sangue rosso.
La sopravvivenza è
dettata da un fosso
lontano dagli scorci
verdi e rigogliosi
di ulivi gioiosi
tranciati via ormai
da bulldozer infami
da storia che già sai.

Il cielo era pieno
di uccelli, nuvole
non rombo assordante
di aerei neri
con l'obiettivo fiero:
oscurare il sole
con pace devastante
di un'occupazione
e il pianto bambino.

Un dito contro l'altro
un eterno conflitto
di uno oppresso e
di uno che opprime.
Ma qui non c'è vincente
c'è gente innocente
di confini nessuno,
solo innata voglia
di pace, serenità
e non dover piangere
il dolore di nessuno.

Una Mongolfiera

Pubblicato da Dan Angelo alle 00:26


C'era un palo della luce, la luna era lieve e si confondeva con esso. Era un piccolo parco, una macchia verde dentro quel quartiere di periferia. Avevamo lasciato orme sul terriccio bagnato ed era una fredda serata di un autunno e di un inverno che si davano il cambio, si abbracciavano per salutarsi per il nuovo turno di guardia. L'inverno in genere mette paura agli animali, la maggior parte di loro per non guardarlo in faccia si mette a dormire. Mancava un pezzo di legno a quella panchina, nessuno l'aveva curata, più che un parco sembrava un posto dimenticata da Dio o solamente dall'amministrazione comunale, ma non mi interessava tanto stavolta. A trent'anni suonati stare alle due di notte su una panchina da solo non significa nulla di buono.
Mi strofinavo le mani per combattere il freddo, mentre il mio respiro si faceva vapore che si disperdeva nell'aria, e non bastava quel fumo, così frugai con ansia nella mia borsa. Filtro, tabacco e le cartine maledette che si divertono a nascondere. Dovessero essere un personaggio di qualche racconto di Omero, sarebbero delle perfette creature di Ade pronte a molestare le vite dei vili mortali. Così dopo una lunga caccia trovai la carta su cui bruciare le vertigini da buttare fuori dai polmoni, così irrequiete da costringermi a buttarle fuori in qualche modo.
Mille, migliaia. Cominciai a ipotizzare quante di questi fuochi fatui abbia fumato in vita mia, di quante volte abbia riempito di sberle i miei polmoni lacrimanti che chiedevano di smettere ed io , con sorriso maligno nella testa, mi accendevo l'ennesima sigaretta. La città non dorme mai, il rumore delle macchina che corre sulle strade è una costante inscindibile.
Non voglio pensare a niente, la mia vita, ciò che ho attorno. Dunque mi concentrai su un punto nero in una stanza vuota e bianca, lui era il mio pensiero, la mia pace quel punto nero. E' il dolce ricamo che poteva dare la mia immaginazione, il riparo di piccoli e brutti leopardi fedeli a una siepe. Ma tutto d'un tratto rumore. Rumore fastidiosissimo, uno stridulo che invadeva il mio tempio di silenzio, di non rumore. Così quel punto nero cominciava a muoversi e si agitava come se fosse in atto un terremoto e la stanza si riempiva di persone, le conoscevo, tutte persone che conoscevo mi parlavano e non capivo quello che volessero dire. Sembravano che mi vogliano confortare, ma urlavano, è da loro che proveniva il rumore. Non ce la faccio più, devo fuggire.
Il fiato corto è come la vendetta dei miei polmoni, la sigaretta è a terra con la testa fumante. Toccai le assi della panchina come per rendermi conto di dove mi trovassi e mi sentei a disagio. Quel parco era così diverso anni ed anni fa, colmo di speranze e delle esultanze alle prime grandi gioie. Era pericoloso, sentivo che me ne dovevo andare anche da lì. Presi la mia borsa e non ci pensai due volte, imboccai il sentiero davanti a me. Casualmente passò un notturno sulla strada adiacente, così feci uno scatto alla vicina fermata e l'autista si fermò. Non sapevo dove andare, di tornare a casa non se ne parlava affatto. Mi sedetti su uno dei sedili davanti, anche loro sembravano dormire insieme alla notte e guardandomi intorno notai che c'era solo l'ennesimo ubriacone che aveva la faccia spalmata sul finestrino che non reagiva neanche alle brusche frenate dell'incosciente autista che sembrava galvanizzarsi su qualche brano degli agli Iron Maiden. Beato quell'ubriacone, pensai tra me e me.
Quanti film avranno fatto con il protagonista che guarda fuori dal finestrino, chissà che gusto ci provano. Pali, lampioni, marciapiedi e segnali stradali come una canzone noiosa bloccata sul tasto repeat e poi stop. Un semaforo rosso. Il mio sguardo comunque lo sentivo vuoto, come se vedessi ma non vedessi, lo sguardo di un miope che guarda la folla di persone che sembra tutto uguale e così rimango indifferente quasi sollevato. Ma poi anche quello mi diede la nausea.
Scesi.
Non conoscevo il posto in cui mi lasciò la vettura, era un quartiere come un altro. A un certo punto mi imbattei su dei lavori in corso, un bel nastro della polizia municipale su cui scritto il divieto di sosta con indicata la data del termine della fine dei lavori. Con nessuna sorpresa notai che erano già passate due settimane, ma la buca scavata dai lavori era ancora lì. E allora ci buttai dentro la mia borsa, era inutile, in quel momento smisi di fumare, insieme alle lettere in cui rifiutavano "gentilmente" il mio curriculum da fannullone. Almeno questa buca l'hanno iniziata. Sarebbe bello a volte, iniziare e non finire mai. Lasciata la buca, frugai nelle tasche e tornai subito indietro. Anche il mio cellulare volò giù.
Ora mi sentivo più leggero, avevo buttato via tanti dei miei pesi. Ero come una mongolfiera, per volare dovevo buttare le zavorre in eccesso. E così capii tutto.
Cominciai a correre, come un forsennato, come a consumare tutti i miei liquidi e i miei muscoli, non so quanto corsi e per almeno due volte rischiai di inciampare e farmi male davvero, ma almeno sapevo dove andare stavolta.
Panta Rei. Me lo sono ripetuto tante di quelle volte nella mia vita che non so se bastino tutte le mani degli uomini che abitano la terra per contarle. Scorre ancora l'acqua del fiume e chissà per quanto ancora scorrerà.

Ripresi fiato con calma,
diedi un'occhiata alle stelle nel cielo viola della città.
Mi tolsi le scarpe.
E sul ponte,
salii in piedi sul parapetto.

I'm here to listen to your story

domenica, giugno 10, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 01:16

Passi sui san pietrini, il tac tac di ragazze dal tacco alto e il vestito ristretto scandisce le parole sguasciate della clientela di Trastevere. Trastevere inghiotte tra le vie come un formicaio gli operai della città in riposo, in mezzo a un bicchiere di birra e una fumante margherita. Così errano nella propria cupola movente le storie degli uomini, una libreria, un pozzo di racconti chiusi in un paio di scarpe. Scarpe che rallentano il passo, si voltano come gli sguardi di chi le indossa, un occhio su un cartello, un invito innocente. Un sorriso distratto, un apprezzamento involontario, curiosità lasciata sul piatto e chi, i più tentati, offrono parole su cui banchettare. Share my story, why not.
E non è un motto per invadenti social network, è una nuova cornice del quartiere, è il dente cresciuto nella morsa della notte. Orecchie per chi ascolta, bocche affamate di dover dire e far uscire dalla gabbia della propria realtà qualcosa per cui rallegrarsi, intristirsi o semplicemente lasciare. Una mano da allungare, un abbraccio da non rifiutare, senza troppi recinti o muri dipinti.

C'era una volta per te.
E ora anche per me.

Una castagna

venerdì, giugno 08, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 04:32

"Dovessero farmi una foto ora, ne verrebbe fuori un'immagine di un uomo con cinque maschere: un guazzabuglio di espressioni e stati d'animo. Crono, ormai vecchio e stanco, si diverte ancora a giocare con il tempo, maledetto lui e tutti gli dei suoi affini. E forse sono invecchiato insieme a lui, guardami nipote mio: porto i miei anni sulle spalle, ma non i capelli che non mi vogliono più. La mia faccia è una quercia, una corteccia impregnata dalla vita e custode di scene spezzate dalla spegnersi e riaccendersi delle palpebre dei miei occhi stanchi.
E come loro, la mia vita è stato sempre un sali e scendi, non riuscivo mai fare tutto d'un fiato, ma tutto a piccole pause interrotte. Ah.. le mie rughe e la mia pelle, tra loro i monti di tutte le volte che mi scontravo con me stesso, una sfida infinita e mai vinta e ora tutto mi scivola tra i solchi di antiche battaglie. Il mio corpo così si è adattato a me. Siamo tutti adattati, più i tempi vanno avanti e più tutto si adattata. Vogliamo essere il colore che non abbiamo o che non vediamo e così ci accostiamo tutti spalla contro spalla e non siam costretti a conoscere chi ci sta a fianco. Esso ci struscia addosso, come io so della sua presenza, lui sa della mia e questo succede ogni giorno con tante persone.
Potremmo diventare un bel quadro di qualche vecchio artista puntinista, quale ispirazione migliore: non dovrebbe nemmeno esagerare con la tavolozza dei colori poiché a noi piace trovarci abbinati. Percorriamo strade piene di secchi di freddi colori che ogni giorno calpestiamo lasciando strisciate grigie attorno alla nostra città, come a riempire uno di quei libri per i bambini ma con la figurina della nostra scheda elettorale o del nostro conto in banca. Ti chiederai chi è che mette questi secchi. Alza la testa. Così ogni giorno vogliamo affinare l'arte dell'inadattamento. Un limbo maledetto, una via di templi lontani, di eremiti e pochi pensieri vani. Un piede nel secchio ci rimane, a sporcare per procacciar il pane. E mentre pensiamo di schivar e pulire da un lato, sporchiamo dall'altro così per girarci in tondo. Un suono opaco di sottofondo e diventiamo sordi. Più violenta l'immagine, a volte più contorta e più la nostra reazione diventa incerta. C'è una vecchia storia di qualche isola sperduta dell'Oceania che è piuttosto curiosa. Sei maschi indigeni, in questa isola di corallo e cenere, sapevano bene che sarebbero morti e nessuno sarebbe sopravvissuto. Così andarono a raccogliere castagne. Una castagna si appiccicò al pene di un uomo che si mise a piangere e cercò di liberarsene, ma era così attaccata che quando la tolse si strappò anche i testicoli. Fu così che diventò una donna. E da lì l'isola si popolò e loro non si estinsero.
Ci vorrebbe una castagna che si attacchi a queste catene e ci tolga l'oppressione.
E poter assaporare un po' di pura libertà.
Troppo facile non credi? Ma tu intanto tieni questa."

Così il vecchio nonno dagli spessi occhiali tirò fuori dalla tasca della sua giacca una castagna e la consegnò al ragazzo. "Non sprecarla"

Il ritorno a casa

venerdì, aprile 13, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 16:13


E' stanca la mente di un sudicio corpo alla fine della giornata. Membra poggiate sul sedile di un autobus notturno e, chiusi gli occhi, il pensiero va a lei e, insieme a lei, la dolce voglia di stringerla accarezzandole i capelli. Strani i sorrisi sul finestrino, spezzati dai lampioni a rompere le tenebre.
I pensieri sono acini di un'arancia che formano l'intero frutto e, come per raccogliere il succo, esplodono in mille sapori, gocce di vernice sulla tela che danno gusto agli umori.
A quest'ora c'è poca gente fuori, anche se gli irriducibili della chiusura dei locali compaiono come figure tremolanti alla ricerca di un equilibrio perso di propria spontanea volontà.
In questi casi guardo la luna, ce n'è una per ogni notte e ognuna è più spontanea, non si fa scrupolo a mostrarsi così piena di sé, mentre altre volte si nasconde e lascia il cielo alle stelle, loro sì che non mancano mai.
Una persona potrebbe paragonarsi alla luna, tanto ridente quanto a volte è schiva o sentirsi più piccola mentre altre volte si sente più grande e importante. Nella luna, una persona rispecchia il proprio ego mentre la fiumana di persone sono stelle infinite che ci circondano nel cielo della nostra vita.
Nel veder i marciapiedi vuoti, io satellite della terra, sono solo nel giorno a vedere questi lampioni come nuvole che passano e corrono. Soltanto che ora è notte.
Scivolo via verso la mia tana, una culla di emozioni, un letto e una coperta di sogni fino alla luce di domani.

Funamboli

giovedì, aprile 05, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 17:06


"Ci sono gli attori. E ci sono i funamboli.
Ci sono due specie di persone.
Ci sono quelli che vivono,giocano e muoiono.
E ci sono quelli che si tengono in equilibrio sul crinale della vita.
Ci sono gli attori.
E ci sono i funamboli."

Quotidianità costruita su matasse di fili, così i funamboli della terra camminano sull'aria della terra. Una casa, un reddito, una famiglia, un rapporto: buche da sorpassare sopra un filo che si tende e si abbassa, a volte sparisce. Acrobati a ritmo di pianoforte, come l'affondare di un dito su un tasto e il colmare del cielo in nuvole. Passo dopo passo, allargate le braccia e fare un passo e uno ancora con un piede che insegue l'altro senza fermarsi mai.
Quanti suicidi in pensioni non rilasciate e cumuli di denaro usati come cartine da banche spietate. E dal filo ci si lascia cadere, guardando nella caduta le stelle rimaste lassù e a cui si cerca di dare una spiegazione del proprio gesto.
E dal filo cominciano a farti saltare una siepe e poi un muro che nasconde il limite di uno strapiombo e quanta paura nascosta in luoghi di incertezze. Qualcuno si ferma e si accuccia tremolante, rinchiuso su se stesso come un cane senza casa e senza casa attaccato saldo con le mani al filo aspettando che finisca la pioggia.
Una colonna di fumo e un campo di battaglia. Gladiatori funamboli e chi si ferma è perduto. Così il dado è tratto.
Uno, due, tre, quattro, conto i passi dei miei piedi stanchi, così incattivito, così annoiato da esser stufo di questo paesaggio. Quanta destrezza nella voglia di cambiamento, ma che sia lento districato tra il rumore del vento e immerso da un convento fatta di famiglia, studio e intento. Il mio studio, la mia ragazza, il mio voler camminare su questo filo e di passi ne ho fatti duecento. Tutto a misura di noi stessi, reinventandosi con uno stato di facebook e di carta igienica usata nei cessi. E siam così bravi e così complici da esser indivisibili e invisibili ai nostri occhi, dolci balle di fieno che rotolano rotolano e accumulano accumulano. Dobbiam accumulare. Che sian soldi o sian rabbia poco conta. L'importante è rotolar e accumular.
Quanto poco rispetto nei miei confronti, tanto da prendere le forbici e tagliare.
Fi/lo via.
Cado.

Qualcosa di insensatissimo con troppo senso, ma di cui non si capirà nulla

giovedì, marzo 29, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 01:47


E' quasi pietoso l'andare di questi piccoli esseri. Così figli di una stessa consueta metodica, così scapestrati da farsene una propria, unica ed indivisibile. Li guardo stranito, non li capisco. E il punto di vista, quello mio, non è che sia mio. O è meglio è mio, con gli occhi di qualcun altro. M'innaffio di pensiero, ti bagno. Ora lui ti pulisce. Tutto è bagnato, un lago. I funzionari dello stato passano e asciugano tutto. Ci lustriamo, io mi faccio bello davanti lo specchio. Tu sei più bella. Eppure se mi strofino di più magari esco meglio. Mi si è bucata la faccia. Ride e lui ci infila un bel ditone dentro. Cazzo è profondo! Prendi una torcia urlano da dentro! Uno passa con la bava alla bocca. guarda il buco e sbava. Caramelle. Sì, proprio dolcetti da un buco. Io non le vedo. Io sì. Io no. Io sì. Tu hai gli occhiali. Ti ho visto, ma non ti conosco. Ti ho visto, ma non ti conosco. Sei lì, ma non ti conosco. Sì lo so che ci sei, non devi alzare la mano tranquillo. Un altro passava e aveva una foto in mano di un altro ancora. Quest'ultimo gli comparve davanti. Allora cominciò a guardare freneticamente la foto e lui. la foto e lui. la foto e lui. Si cominciò a grattare la testa. Forfora! Forfora! Dubbi e incertezze. Si gonfiò una testa grande e gonfia. Qui so tutto io! Fame, sete. Cacca. Ti piacerebbe. Scale, gradini, vertigini. Soldi. Opportunità. Ahià. Son caduto. Non spingere. Ma io non ho spinto nessuno, faccio solo un gradino e mi siedo. Figure e curve di una bocca. Verso giù o verso su. Su e giù. Un ascensore. Io ho una valigia e la mia cravatta, guardaci dentro. Apre. Vomita nella valigia. Ma perchè, guarda bene! Rivomita. Lasciamo stare. Così torna a correre. Corri corri corri! E' sempre tardi! Mi sono perso. Sigaretta in bocca, mani in tasca. Ah, il solito fancazzista. Perso, e chi non lo è?

Batteva sul vetro, là dentro si mossero tutti impauriti. "Bah, che strani esseri".

La mia stanza

mercoledì, marzo 21, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 17:49


La mia stanza comincia a esser sempre più stretta.
E' una collezionista e con ingordigia raccoglie anni, stanchezze, noie, sogni, solitudini e vestiti. Tutto ha una sua grandezza e una sua epoca, come se fosse dettato da un'accortezza maniacale, una matriosca: il nuovo mangia il vecchio e il grande mangia il piccolo.
Saranno gli occhi che diventano miopi e più grandi, ma le pareti rimangono le stesse, vestito il nudo, e fagocitano senza accennare un lamento. C'è ombra e c'è luce, nell'evenienza una lampadina e a volte non fa mai notte.
Pianoforti e chitarre levitano tra fogli accartocciati e parole consumate o forse mai lette. Vestiti appesi in giro come spaventapasseri che guardano minacciosi le maniche inutilizzate di magliette dall'espressione un po bizzarra, rinchiuse in armadi come casa di cure per malati.
C'è una sorta di anarchia ostile all'ordine pubblico e ogni giorno è conflitto, una volta è rivoluzione e poi c'è la retata. "Fuggite, fuggite!" urla il collettivo della polvere ai compagni delle briciole di pane. "Arriva la pulizia! Gli angoli son la salvezza, non la discarica abusiva esempio di un'Italia persa".
Lo specchio è una spia, un corruttore, un aguzzino. Si venderebbe per pochi spiccioli spacciando una faccia stanca, un brufolo sul naso e una grattata di palle.
L'uomo ha incollato un materasso e una coperta e ci ha fatto un pozzo di ignoto. Non un secchio, ma un'altalena tra amori e stanchezze su un vuoto di pensieri e una sveglia che ricorda la realtà.
Non c'è strada nella mia stanza, legata a me da un sospiro, un diario insospettabile.
Chiudo la porta della camera, è l'ora d'aria.

Fantasmi

venerdì, gennaio 13, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 17:41


Gli occhi appena aperti preannunciano la caffettiera a lavoro sul fuoco. Il nuovo sole inietta le iridi di paura, lontano dallo stupore e dalla gioia di altri tempi. Spegnere la sveglia, richiudere gli occhi, riaprirli, guardare l'orologio e gettare via le coperte.

La camera da letto, il bagno e la cucina. Una sfida contro noi stessi, lo spazio e il tempo cercare di esser presenti in tutte e tre le stanze contemporaneamente. I calzini sulla mano sinistra, lo spazzolino sulla destra mentre con gli occhi si cerca di capire se il caffè sta uscendo.
Chiusa la porta di casa, ti minaccia con una pistola alle spalle il terrore di aver dimenticato qualcosa, per poi colpirti con ripetuti colpi se, malauguratamente, il cellulare stesse ancora galleggiando sul lavandino quando si è ormai abbastanza lontani da casa, oltre la soglia del non ritorno.

Quanto sembrano felici i cantanti che ci urlano nelle cuffiette, così felici che, cercando di premere il tasto “next song”, l'uomo puzzolente dall'alito chimico accanto a te sull'autobus ti urta facendoti premere il tasto “repeat”, facendo in modo che tutto l'odio si sfoghi in immaginazione nei confronti dell'espressione ebete del tuo vicino di fermata.

Ed eccoci giunti davanti al lustro di tutti i giovani: il progresso, l'avanguardia!
La porta del nostro luogo di lavoro provoca, ad ogni suo passaggio, il miraggio del tuo capo dalla faccia di iena sogghignate che, alla firma del fantomatico contratto a tempo determinato, sembra sillabarci la frasi “a noi serve la qua-li-tà”, mentre noi, stropicciandoci gli occhi, ne deduciamo invano la rima baciata. Pre-ca-rie-tà.

Anche noi siamo colonna portante delle migliori aspettative che ci han promesso e chi se ne frega se a parlar son nani, banchieri o bugiardi. Se non inghiottiam questo, perchè faticar a cercar altro?
Le lancette vanno, ripercorrono il loro andare come noi ripercorriamo la via del ritorno, cercando di evitare l'uomo puzzolente che come noi torna a casa.

Fantasmi alloggiati per spaventare una crisi.
Chiusi gli occhi, la mani toccan la propria faccia per poter sperare di toccarla con più voglia di vivere al sol di domani.