Di alcolismo, vini bianchi e altre farneticherie

sabato, maggio 04, 2019 - Pubblicato da Dan Angelo alle 01:59
Non so. Tante volte ho iniziato a scrivere con quelle cinque lettere. Ho sempre voluto scrivere storie, ma principalmente riesco a raccontare me stesso quando sono triste. Quando sono triste o semplicemente ho riflessioni di un certo genere acquisto una determinata sensibilità. Ed è questo che mi porta a scrivere. Ed è questo che mi ispira. Mi ispira la tristezza e il disagio. È proprio con quella sensazione che esce la parte più debole di me, forse la più vera. Per il resto ne esce fuori una macchietta, un qualcosa che si costringe a essere qualcosa eppure rimane informe. Faccio le cose per fare, per stare apposto con la coscienza. Non faccio quello che voglio. Ma cosa voglio? Voglio emozioni, voglio trovare nuovi posti, nuove sensazioni. Eppure sto bene. Sto bene? Troppo bene. Ecco perché.  ‌E sono qui. A bruciare parole, mentre nell'aria bruciano note. Note che non che si sa di quale linea d'aria vibrino, ma in ogni caso io sto con le orecchie tese ad ascoltare. Ascoltare quello che vogliono dire, se qualcosa vogliono dire. Ma non so. Come al solito, prendo le cose come al momento, come aumentano come le sento come no. Lo so. Questo rimane solo tutto un momento perso, sospeso. E tutto va bene così. ‌ Orecchie per sentire, per ascoltare. Volevo dire qualcosa, ma come la mia incertezza tali parole si son perse. Lascio ai miei fievoli sguardi le mie titubanze.  Suona il violoncello come per dire qualcosa, raccontare una storia. Io non racconto niente. Ascolto.  Infastidito. Perché. Non c'è motivo. Lascio alla mia mediocrità il mio seguito, un lustro drappo rosso che scorre senza far rumore e che senza troppi indugi esce, se ne va via.   Cosa mi aspetto, cosa voglio. Niente mi dico, allora niente.  Ma.   Sono diversi i ma che lascio indietro, che mi fanno sospirare. Che non vorrei esistessero, che  stanno li mentre li accumolo nell'angolo della mia stanza.  Mentre un violoncello si alza.   Lo smarrimento, lento e incerto di questa serata Adesso si fa domande Non trova risposte nonostante gli sforzi. Acqua  Dov'è l'acqua  Chiede  A me l'acqua non va mai.. Ho una sete terribile eppure non mi va mai Dove dove  La domanda di tutti è alla fine dove..  Ma alla fine è sempre che io non posso.  Non posso Ecco cosa mi uccide.    E di qui vado avanti così, anche se non so se è così giusto. Perché probabilmente non lo so.   E quindi ci dormo, dormo, e poi mi sveglio e poi dormo ancora.  E poi.  Ci sarà un poi?  Applausi, E tutto se ne va Applausi e anche stavolta non si sa.    Ma poi quel che rimane veramente è un sottofondo latente, così che suona suona, mentre tutto il resto prosegue, hai i suoi scuri. Ma lui come se non fosse niente accompagnerà come ha sempre fatto E come sempre fatto ritornerà.   

Nessun confino

martedì, aprile 02, 2019 - Pubblicato da Dan Angelo alle 12:28
Un muro divideva
la terra irrequieta e
sporca di sangue rosso.
La sopravvivenza è
dettata da un fosso
lontano dagli scorci
verdi e rigogliosi
di ulivi gioiosi
tranciati via ormai
da bulldozer infami
da storia che già sai.

Il cielo era pieno
di uccelli, nuvole
non rombo assordante
di aerei neri
con l'obiettivo fiero:
oscurare il sole
con pace devastante
di un'occupazione
 dalla sordità assordante.

Un dito contro l'altro
di un conflitto fatto eterno
di uno oppresso e
di uno che opprime.
Ma qui non c'è vincente
Solo gente innocente
con confini di nessuno,
solo innata voglia
di pace, serenità
e non dover piangere
più dolor alcuno.

L'altalena

lunedì, gennaio 30, 2017 - Pubblicato da Dan Angelo alle 20:40


Non so.
Mi sento sempre smarrito in qualche modo mentre le cose scorrono accanto a me. L'autobus di una vita fa le sue fermate, mentre io poggio il mio gomito sulla finestra a guardare i fiocchi di un inverno che se ne va, ma che nonostante tutto tornerà.
Sarà passato anche per di qui il tenue tonante tremolare del vento che attraversa le spesse foglie lontane. Foglie talmente verdi, che sfuggono come semafori che lasciano passare il sibilo sonante di parole fini, fino al nascondersi dell'orizzonte.
Anche le parole ogni tanto finiscono, alla terra rimangono, alla terra ritornano.
E anche le parole ogni tanto mancano, magari volutamente non dette e tenute, magari volute ascoltare come briciole in fondo a tasche mai svuotate.

Al girare dei calendari il cielo si illuminava, e mio nonno minutamente le spegneva.

Non ci sono storie di eroi, di cavalieri o trombe d'eccellenza. Certe storie son rimaste lì, e lì son rimaste le pagine di un libro vecchio di cui ho potuto toccare solo la copertina delle righe di una mano, come avvicinarsi e allontanarsi al calore di una fiamma di candela. Un soffio di fiato e anch'essa si è spenta.

Per tanti motivi e tante cose, forse non ho mai conosciuto davvero mio nonno. Dunque, un bimbo gioioso andava sopra un'altalena che si avvinghiava sui rami di quell'albero rugoso e forte. Quell'albero con gli occhiali e pochi polmoni era mio nonno. Quell'albero sapevo che era sempre lì a nascondersi dietro la sua corteccia, che poco narrava ma che tanto nascondeva. Vorrei esser stato abbastanza grande da salire sopra l'altalena e afferrarne i rami, ma molto spesso ero così piccolo che cadevo a terra e rimanevo a giocare con le formiche.

E così, ad un certo punto non era più il tempo dell'altalena. L'inverno si è portato via le tue foglie e di fretta e furia cerco anche io di mettermele in tasca, ma anch'esse rimangono briciole.
A guardare in fondo alle mie tasche, però mi regali questo pensiero.
In qualche modo di diventare albero anch'io e come te toccare il cielo.



Jazz per l'autunno

lunedì, novembre 17, 2014 - Pubblicato da Dan Angelo alle 19:55


Finestre bagnate dalla pioggia, lente lacrime di sudore dell'autunno che faceva il suo dovere per disegnare sul vetro lo scorrere delle nuvole. In fondo alla stanza il contrabbasso che scandiva la melodia jazz che rendeva l'atmosfera opaca, annebbiata dai fumi delle sigarette accese prima e dai liquidi dei cocktail poi.
Era un tardo pomeriggio di un locale a LA, di quell'america lenta e sporca di un Kerouac qualunque: in quel momento il posto perfetto per me, perso a cavalcare le note basse di un sassofono che piangeva la sua malinconia. Con una mano avrei agitato il mio whisky senza ghiaccio, ci avrei guardato dentro come se mi ci dovessi specchiare per poi buttarlo giù affinché sentissi il sapore forte del mio essere stesso. Subito dopo sospirare e mordermi la mano chiusa per guardare da lontano quegli occhi neri che vedevo attraverso un fessura tra le figure delle persone, forse per decifrarne l'incanto, forse per essere solamente curioso o solamente per attirarli da me.
Piuttosto credo che sono un cuore debole io e non sono mai voluto andare da un medico per fare un controllo, per appurarne la verità. E' così quando si vuol decidere di non essere qualcosa. E' così che consciamente o inconsciamente ho sempre deciso di non essere qualcosa.
Eppure con il costante desiderio di essere qualcosa.
Ed a un tratto, cosa doveva succedere di significativo in quel momento? Beh, nulla.

Mi alzai dal mio sgabello e frugai velocemente le tasche del mio vecchio giubbotto nero, dalle quali cadde il mio portafoglio. In quel momento gli occhi neri erano mani che si mossero, come se fossero un'espressione dell'arte stessa, per raccogliere da terra il mio portacarte e, lentamente, tirare fuori il mio documento scrutandolo tale che pareva lo guardassero da dietro il vetro di un bicchiere. "Ciao Peter" dissero quello mani.
E in quel momento un bicchiere si ruppe.
Come d'incanto ero fermo a guardare il mio stesso bicchiere vuoto e scossi la testa come per cancellare momenti mai accaduti. Pagai il conto in fretta ed uscii da quello che in realtà era un comune bar di Roma, con il gestore che aveva più le sembianze da ultrà che da sopraffino barman di Los Angeles.

Per lo meno l'autunno parlava la stessa lingua e anche qui le foglie cadevano ritmicamente una dietro l'altro come le fantasie che ubriacavano la testa. Nel cielo gli stormi di uccelli formavano grandi parate come se fosse una grande cerimonia per inseguire il sole lontano da qui. Cominciai a passeggiare per il mio vecchio quartiere, un quartiere stanco che non si voleva più mostrare come se le sue vie fossero state fatte più per nascondere che per farsi ammirare. I fili intrecciati su cui si stendevano i panni, invece, restavano muti strumenti nella mani delle vecchie signore alla ricerca della proprio pensione, un breve ricalco di una fotografia con la didascalia "Ciao da Roma".
I musicisti Jazz non erano nient'altro che note perse per le strade e le custodie degli strumenti salvadanai che non si arrivavano mai a rompere: nessuno è riuscito mai a scuoterli per sentirli pieni.

Qualcuno potrebbe dire che sono uno di quelli a cui piace perdere tempo, se mai il tempo si perdesse. Esso si perde solo quando si è da qualche altra parte rispetto al luogo in cui si vorrebbe essere o che si ritiene più importante. In termini materiali, dove si può spenderlo. In termini immateriali, che palle. Consumare, spendere e produrre.

Girai l'angolo nella piazza dove mi piaceva vedere i bambini correre e giocare, poi i genitori se li portavano via in braccio o con il passeggino. Loro che riescono a guardarsi ancora intorno mi notavano. Sorridevo, e loro sorridevano.
Ma all'improvviso poi vidi quegli occhi neri poggiati ad un muro ed anche loro si guardavano intorno. 

Ed a un tratto, cosa doveva succedere di significativo in quel momento? Beh, nulla.
Quella volta mi avvicinai. Dissi qualcosa. Loro dissero qualcosa.

"Ce l'hai fatta".
"E ora?"
"Ora? beh, nulla".

Con una mano avrei agitato il mio whisky senza ghiaccio, ci avrei guardato dentro come se mi ci dovessi specchiare, per poi buttarlo giù affinché sentissi il sapore forte del mio essere stesso.
Sentire che sapore hanno i miei occhi neri.


La fermata dell'autobus

martedì, ottobre 22, 2013 - Pubblicato da Dan Angelo alle 22:08

 

(La foto è totalmente casuale e nel racconto non è citata. Ma mettere di mezzo la municipale non fa mai male insomma..  sta sempre in mezzo al cazzo comunque)


C'è sempre un diavolo secchio della spazzatura. Sì, dietro ogni fermata si nasconde un secchio della spazzatura come a dirci “si, so che nell'attesa fumerai una sigaretta: perlomeno cicca qui.” , o ancor meglio “prenditi una birra, altera la tua situazione attuale che è meglio, successivamente cerchiamo di sembrare sostenibili ed ecologici: buttala qui dentro.”. Pochi, i salvati o i privilegiati, sono sfuggiti dalla chimera della fermata dell'autobus. La vedi. Ti avvicini inesorabile in quella palude di cemento, dove quell'elenco di autobus fatto cartello giallo ti dice "mo so cazzi tuoi".

E' mattina.
Non ne vuoi sapè un cazzo di nessuno. Sei in ritardo, fai colazione lo stesso, altrimenti muori subito dopo. Ovviamente hai messo le mutande al contrario con l'etichetta bella in vista alle tue spalle, che sembra cantare sul ponte sventola bandiera bianca. Esci dal portone di casa con un occhio chiuso e l'altro pure, chiami l'ascensore. Poi pensi che almeno un po' di musica mattutina, che ti accompagni nel tragitto, funzionerebbe da lenitivo. Cerchi le cuffiette in tasca, un tal groviglio che a saperlo Rubik si sarebbe esentato dal colorare le facce di un cubo perché era divertente. Ovviamente lui, il vecchietto del cazzo dell'interno 8, nel frattempo ti ha richiamato l'ascensore che era arrivato sul tuo pianerottolo. Colorite Reazioni.
Ti incammini verso la fermata dell'autobus sfilando gli ultimi fili delle cuffiette, evitando pali e/o persone come se fossero proiettili matrixiani, fino a quando ti rendi conto che arrivato esattamente a metà tra la fermata e la tua casa avevi bisogno di andare in bagno. Stringi le chiappe.
Scontato dire che nel frattempo l'autobus era passato accanto a te e lo stesso vecchio di merda dell'interno 8 ti raggiunge con il suo bastone chiedendoti “è passato l'autobus?”. Il bastone sarebbe stato un ottimo tappo.

Qui inizia la tragedia quotidiana, di una storia ciclica e infinita.
La mattina è il meticciato suburbano di chi aspetta alla fermata dell'autobus e vicino al secchio della spazzatura ovviamente. Si narrano storie di vecchi impressionisti dell'ottocento che rappresentavano tal paesaggio, come uomini legati a lancette d'orologio appesi dalla non fruibilità del tempo. Mentre eccolo dall'altra parte l'automobilista, diviso dai pendolari dall'assicurazione del veicolo e dall'azione civilizzatrice del parabrezza. Se la ride lui, distratto e frustrato, superbo e altezzoso mentre osserva i poveri condannati: una stazionarietà di anime in fila per Caronte. Semaforo rosso e lui suona. “Che cazzo te soni” pensano tutti all'unisono come un coro di muti.
Per essere romantici quando ti guardi attorno sembri all'interno di una foto color sigaretta di un proletariato urbano, almeno l'irritazione delle facce dice quello. E tutti guardano nella stessa direzione, come Colombo che scruta l'orizzonte aspettando  di avvistare terra. Si, ma quelle non erano le indie, idiota. Si, come quello non è l'autobus che ti serve, coglione. E ad un tratto da un'ala della fermata si sente come un sospiro di salvezza, come se ad un certo punto loro erano i prescelti. Per noi, sfigati che dovevamo ancora aspettare, lo erano. Si deve sempre arrivare a una meta, sennò si è smarriti. Cazzate. Guardi l'orologio. Game Over, sei spacciato. Stavolta non era tanto una cazzata. Il problema della giungla urbana è che non ci sono scimmie, siamo tutti dei cazzo di naufraghi con uno smartphone in mano.
Ma tanto come sempre il bus arriva e inizia il pogo, ma il governo ha dovuto tagliare la musica. Vedi un tuo ex compagno dei tempi della scuola da lontano, fuggi verso la direzione opposta. Tagli la strada a una sprovveduta vecchietta e ti siedi vicino al primo tizio, al quale non riesci a distinguere la vetta del K1 dalla forfora che scendeva come fosse stato Natale. Ti addormenti e l'autista ovviamente non deve far altro che frenare per farti sbattere la capoccia contro il vetro del finestrino. Almeno non mi son ritrovato al capolinea..

Addio o arrivederci

lunedì, luglio 22, 2013 - Pubblicato da Dan Angelo alle 02:35




4.32 del mattino.
Il sole ancora non si era alzato dal letto dell'orizzonte ad accendere l'oscurità della notte, lampi di scintille dell'accendino diventavano fuoco per dare vita a quella sigaretta che come di consueto era diventata un rito a quest'ora. Guardavo fuori dalla finestra osservando le serrande chiuse della gente che dormiva, affinché si ricaricano per un altro giorno che probabilmente sarà uguale a tanti altri precedenti, forse per tutti è l'ora del sonno. Per me no, era  istinto di non conformismo o di disagio sociale cresciuto negli anni, tuttavia quasi mi divertivo a cercare con gli occhi fuori la finestra la luce di qualche camera accesa di un mio simile che piroettava a quell'ora morta. Presto però le mie speranze poetiche si spezzavano nello sciacquone del bagno del panettiere che si alzava per andare al lavoro, mentre l'ombra sulla finestra mi diceva chiaramente "Sì, si sta grattando le chiappe".
Nonostante tutto era bello così, sbuffare il fumo a pochi centimetri dal vuoto allenandomi a guardare di sotto. Penso di aver sempre sofferto di vertigini in qualche modo, però come ogni paura la prendo per mano e me la tengo stretta così guardo giù fino a quando mi va. Col tempo sono migliorato.. sei, sette, otto piani non erano pochi, anzi indagando la mia memoria non mi viene in mente nessuno che si sia salvato da una caduta di otto piani. Mi viene in mente un vecchio film di Kassovitz "La Haine", L'odio, metti insieme ragazzi, polizia, banlieue, scontri, un po di violenza, chi direbbe anche degli sporchi immigrati e boom hai fatto un filmone di quelli che ti spari almeno un paio di volte. E guardando da questa finestra ti torna in mente la frase clue di Hubert "Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene." Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.".
Si, mi sono immaginato varie volte di buttarmi e di sentire quella sensazione in cui stai in aria e cadi cadi cadi.. In quel momento chi sei, cosa sei, cosa pensi. Ma di una cosa sei certo: bang stai per morire. Ma è così profonda la differenza tra la consapevolezza dell'immediato e la spensieratezza di un capolinea futuro ancora non conosciuto? E all'improvviso quella finestra era diventata una fermata del treno, tanto sai dove devi andare!

"Mah" penso tra me e me sbuffando il fumo dalla bocca e in quello stesso momento mi era venuto in mente la vignetta de La profezia dell''armadillo di Zerocalcare dove i brutti pensieri di Camille e Zero se ne stanno seduti uno a fianco all'altra fuori dalla porta, non so esattamente per quale motivo.
La nostra vita è fatta di atomi liberi che corrono, ma colmi del 90% di vuoto e così vuoti siamo noi. La mia non differisce molto, la dipingerei come quella farfalla che nel bel mezzo del bosco vicino alla fattoria del mio caro e defunto nonno, inseguivo cercando di farla mia con il risultato di cadere con il ricordo di una ferita che porto ancora oggi truccata da cicatrice.
E nel frattempo la sigaretta era finita, buttai la cicca dalla finestra e la osservavo sparire sempre più giù nel buio in un quasi cullandosi nell'aria. E' proprio guardando quella cicca che decisi di prendere una corda, la legai saldamente alla valvola del termosifone e mi calai dalla finestra.

4.47 ancora era buio. scendevo.

VII Piano.
C'era questa nonnina che era così particolare a vedersi. Secca, secca, fragile come carta bagnata. Sembrava potersi rompere in qualunque momento e si metteva seduta e rannicchiata con le ginocchia piegate davanti a sé. E lì messa all'angolo era chiusa come una scatolina. Più si allontanava alla vita più lei si faceva leggera: si piegava come le palme di cocco che la han sempre accompagnata durante la sua vita. Un giorno il vento non soffiò più.

VI Piano
Ero piccolo, vivevamo in un piccolo appartamento in un quartiere un po disperso di una Roma nord anni 90'. Faceva freddo quell'inverno e mi ricordo solo un bianco letto di ospedale. Passavo le giornate davanti al Geam Gear della Sega, anche se disgraziatamente spesso dovevo mettermi a pancia in giù per il turno delle punture. La broncopolmonite non mi fermò, mi fece perdere un po di capelli, ma poi andò tutto per il meglio.

V Piano
Era un periodo. Non stavo benissimo, anzi stavo proprio male. Quando sei adolescente o più giovani puoi solo che piangere, non esiste qualcosa che ti possa liberare dai male che del pianto. Avevo paura di rimanere da solo, piangevo, mi faceva male lo stomaco, non riuscivo ad essere sereno. Ma almeno dopo un po le finivo e potevo respirare un po. Tuttavia a volte non riuscivo a starmene a casa, mi misi a piangere all'angolo di una strada perché chiuso in camera nessuno ti può salvare. E un po di passanti ti chiedono come stai e sei hai qualche problema e in quel momento ti salvano: tu dici che va tutto bene, ti alzi e torni a casa.

IV Piano
Pioveva, pioveva ancora qui. Era da una settimana che pioveva solamente, ininterrottamente e quindi vagavo con un libro e una candela in mano. C'era un tempo che quasi odiavo la pioggia, dentro di me è sempre rimasta quella voglia di sole e mi ricordo quando arrivava quel determinato giorno unico e importante, si sperava nel tempo. Erano giorni di nuvole e pioggia grigi come i miei pensieri.

III Piano
Con il tempo ho sempre imparato ad accontentarmi, a cercare di non chiedere mai niente né ai miei genitori né agli amici né a nessun altro. Sono una persona delusa e che delude, poiché non sono mai stato nemmeno in grado di pretendere adeguatamente da me stesso. Non ho paghetta, evito di chiedere soldi ai miei genitori, non mi piace lamentarmi. Sono sotto un anestetico di nome non importa. E così se non importa niente, cosa c'è d'importante? Mi ricorda una persona che mi chiedeva spesso favori, in cambio di un'amicizia che sapeva di falsità.

II Piano
Ero appena uscito dall'operazione all'appendice, ma stranamente avevo un cuore nuovo. L'ospedale e le medicine in realtà ha avuto sempre un riguardo particolare nella mia vita. Non so quante volte ho visto mia madre seduta sul letto di una corsia, con il dubbio che un giorno uno di quei letti prenda e corra via portandosela con se. Avere un corpo guasto e tradire la morte ogni giorno sentendo il "tic tic" dei battiti artificiali, scandendo la giornata a guardare quella busta piena di medicine e pasticche e pensare che quella rappresenti la propria corda che ci lega alla vita. E' crudele.

I Piano
Cos'è stato? Boh. Non lo so più. Io non so niente. Giovane ventenne fresco di estate. Ero così. Quasi brillante apparivo. Così, non sapevo quello che mi sarebbe accaduto lì a poco. Poi tentennai più e più volte nel voler tornare indietro.
"Così resto solo col cielo e altro non vedo e non so ma se tutto è nascosto nel cielo al cielo io ritornerò."

5.23 Terra
Ero riuscito finalmente a scivolare giù lungo tutta la corda fino a giungere a terra con un passettino. Quanto si è sicuri con i piedi per terra, troppo sicuri per me e allora cominciai a correre dentro il palazzo di nuovo e poi verso l'ascensore.
Sanguinavo inchiostro tutte le volte. Era stupido.
Ma sapevo che sanguinare era l'unico modo per uscire da me. Le mani soprattutto lasciavano segni qua e là.

Quando le pareti cominciano a restringesi, quando lo specchio comincia a darti del tu riempilo di ricordi, di speranze, di emozioni, di musica e liti, di illusioni d’epoca. Quindi avevo macchiato ovunque quell'ascensore che in quel momento mi dava un fastidio tremendo, lasciando le le linee delle mie dita ovunque poiché dovevo uscire, asfissiavo. In quel momento odiavo quello spazio stretto, e strabuzzavo gli occhi sulla fessurina vetrata ansioso dell'arrivo. In quel momento l'elevatore sapeva di tomba.

5.33 Alba
Arrivato al mio VIII piano, uscii di corsa da quel buco prendendo un bel respiro. Tornai in camera. I silenzi erano ormai distrutti dal canto degli uccelli e dallo svegliarsi del sole. Oggi la sfumatura dell'alba era qualcosa di meravaglioso e il sole nuovo arrivava a piccoli passi a conquistare il cielo.
Mi riaffacciai alla finestra e presi un paio di forbici con cui tagliare la corda, la quale guardai scivolare giù come la sigaretta precedente."Non mi piace avere i piedi per terra, non sono una persona sufficientemente sicura" pensai tra me e me sorridendo.
Cercando di non far rumore, presi una sedia e la misi vicino alla finestra. A piedi uniti salii sul bordo  in equilibrio, finalmente mi sentivo a mio agio così sempre in bilico.
E così respiravo il sapore di un giorno nuovo con un respiro profondo.

La differenza tra la consapevolezza dell'immediato e la spensieratezza di un capolinea futuro ancora non conosciuto?
Qui c'è la fermata del treno, Addio o arrivederci, quel che cambia sicuramente è il saluto.