Una Mongolfiera

venerdì, giugno 15, 2012 - Pubblicato da Dan Angelo alle 00:26


C'era un palo della luce, la luna era lieve e si confondeva con esso. Era un piccolo parco, una macchia verde dentro quel quartiere di periferia. Avevamo lasciato orme sul terriccio bagnato ed era una fredda serata di un autunno e di un inverno che si davano il cambio, si abbracciavano per salutarsi per il nuovo turno di guardia. L'inverno in genere mette paura agli animali, la maggior parte di loro per non guardarlo in faccia si mette a dormire. Mancava un pezzo di legno a quella panchina, nessuno l'aveva curata, più che un parco sembrava un posto dimenticata da Dio o solamente dall'amministrazione comunale, ma non mi interessava tanto stavolta. A trent'anni suonati stare alle due di notte su una panchina da solo non significa nulla di buono.
Mi strofinavo le mani per combattere il freddo, mentre il mio respiro si faceva vapore che si disperdeva nell'aria, e non bastava quel fumo, così frugai con ansia nella mia borsa. Filtro, tabacco e le cartine maledette che si divertono a nascondere. Dovessero essere un personaggio di qualche racconto di Omero, sarebbero delle perfette creature di Ade pronte a molestare le vite dei vili mortali. Così dopo una lunga caccia trovai la carta su cui bruciare le vertigini da buttare fuori dai polmoni, così irrequiete da costringermi a buttarle fuori in qualche modo.
Mille, migliaia. Cominciai a ipotizzare quante di questi fuochi fatui abbia fumato in vita mia, di quante volte abbia riempito di sberle i miei polmoni lacrimanti che chiedevano di smettere ed io , con sorriso maligno nella testa, mi accendevo l'ennesima sigaretta. La città non dorme mai, il rumore delle macchina che corre sulle strade è una costante inscindibile.
Non voglio pensare a niente, la mia vita, ciò che ho attorno. Dunque mi concentrai su un punto nero in una stanza vuota e bianca, lui era il mio pensiero, la mia pace quel punto nero. E' il dolce ricamo che poteva dare la mia immaginazione, il riparo di piccoli e brutti leopardi fedeli a una siepe. Ma tutto d'un tratto rumore. Rumore fastidiosissimo, uno stridulo che invadeva il mio tempio di silenzio, di non rumore. Così quel punto nero cominciava a muoversi e si agitava come se fosse in atto un terremoto e la stanza si riempiva di persone, le conoscevo, tutte persone che conoscevo mi parlavano e non capivo quello che volessero dire. Sembravano che mi vogliano confortare, ma urlavano, è da loro che proveniva il rumore. Non ce la faccio più, devo fuggire.
Il fiato corto è come la vendetta dei miei polmoni, la sigaretta è a terra con la testa fumante. Toccai le assi della panchina come per rendermi conto di dove mi trovassi e mi sentei a disagio. Quel parco era così diverso anni ed anni fa, colmo di speranze e delle esultanze alle prime grandi gioie. Era pericoloso, sentivo che me ne dovevo andare anche da lì. Presi la mia borsa e non ci pensai due volte, imboccai il sentiero davanti a me. Casualmente passò un notturno sulla strada adiacente, così feci uno scatto alla vicina fermata e l'autista si fermò. Non sapevo dove andare, di tornare a casa non se ne parlava affatto. Mi sedetti su uno dei sedili davanti, anche loro sembravano dormire insieme alla notte e guardandomi intorno notai che c'era solo l'ennesimo ubriacone che aveva la faccia spalmata sul finestrino che non reagiva neanche alle brusche frenate dell'incosciente autista che sembrava galvanizzarsi su qualche brano degli agli Iron Maiden. Beato quell'ubriacone, pensai tra me e me.
Quanti film avranno fatto con il protagonista che guarda fuori dal finestrino, chissà che gusto ci provano. Pali, lampioni, marciapiedi e segnali stradali come una canzone noiosa bloccata sul tasto repeat e poi stop. Un semaforo rosso. Il mio sguardo comunque lo sentivo vuoto, come se vedessi ma non vedessi, lo sguardo di un miope che guarda la folla di persone che sembra tutto uguale e così rimango indifferente quasi sollevato. Ma poi anche quello mi diede la nausea.
Scesi.
Non conoscevo il posto in cui mi lasciò la vettura, era un quartiere come un altro. A un certo punto mi imbattei su dei lavori in corso, un bel nastro della polizia municipale su cui scritto il divieto di sosta con indicata la data del termine della fine dei lavori. Con nessuna sorpresa notai che erano già passate due settimane, ma la buca scavata dai lavori era ancora lì. E allora ci buttai dentro la mia borsa, era inutile, in quel momento smisi di fumare, insieme alle lettere in cui rifiutavano "gentilmente" il mio curriculum da fannullone. Almeno questa buca l'hanno iniziata. Sarebbe bello a volte, iniziare e non finire mai. Lasciata la buca, frugai nelle tasche e tornai subito indietro. Anche il mio cellulare volò giù.
Ora mi sentivo più leggero, avevo buttato via tanti dei miei pesi. Ero come una mongolfiera, per volare dovevo buttare le zavorre in eccesso. E così capii tutto.
Cominciai a correre, come un forsennato, come a consumare tutti i miei liquidi e i miei muscoli, non so quanto corsi e per almeno due volte rischiai di inciampare e farmi male davvero, ma almeno sapevo dove andare stavolta.
Panta Rei. Me lo sono ripetuto tante di quelle volte nella mia vita che non so se bastino tutte le mani degli uomini che abitano la terra per contarle. Scorre ancora l'acqua del fiume e chissà per quanto ancora scorrerà.

Ripresi fiato con calma,
diedi un'occhiata alle stelle nel cielo viola della città.
Mi tolsi le scarpe.
E sul ponte,
salii in piedi sul parapetto.